La lettera del Papa ai sacerdoti, con lo sguardo di Cristo

Il preside dell’Istituto Redemptor Hominis commenta il testo indirizzato al clero nella festa liturgica del Curato d’Ars, da leggere «dentro a una relazione spirituale»

L’origine della lettera del Papa ai sacerdoti, pubblicata in agosto nella festa liturgica del santo curato d’Ars, me la immagino così: come la raccolta di tutti i pensieri e di tutte le parole che non si ha sempre modo e tempo di dire con ordine e per intero, allorché un amico prete si sfoga con noi, raccontandoci tutte le sue frustrazioni pastorali, i dolori che il ministero gli procura, il peso del ridicolo al quale si sente spesso esposto e quello della vergogna per le colpe tremende commesse da altri confratelli ma che inevitabilmente bollano anche lui, manifestando quella «tristezza dolciastra » – così ben descritta dal Papa – nella quale anche il coraggio e la gioia del ministero rischiano di precipitare. E così suggerisco di leggere la lettera: iniziando con una “composizione di luogo” nella quale possiamo vedere il Papa che, stringendoci le mani e guardandoci negli occhi, condivide con noi quel che egli sa dire a se stesso e alla sua anima di sacerdote quando deve fare i conti con difficoltà che arrivano a toccare perfino la radice del ministero pastorale: cioè il senso che esso ha, la sua origine, la sua utilità e la sua efficacia effettiva di fronte a tanto male che sembra vanificare quel che siamo e quel che facciamo.

Dovremmo leggere questa lettera dentro a questa relazione spirituale, sentendo la passione che il nostro vescovo ha per quel che siamo e per quel che facciamo. Non si tratta, infatti, di un testo gratulatorio o genericamente esortativo: dovremmo poter sentire, leggendolo e rileggendolo, un’eco delle parole stesse di Cristo: «Non vi chiamo più servi… vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). In questi tempi di crisi e di prova, occorre saperci guardare non soltanto con gli occhi del mondo o con i nostri occhi (così spesso, gli uni e gli altri, impietosi e rabbiosamente inquisitori) ma con gli occhi di Cristo stesso, che vede in noi degli amici che ama, con i quali desidera condividere la sua vita.

L’itinerario che le quattro parole del Papa scandiscono (dolore, gratitudine, coraggio, lode) assume concretezza dall’interno di questo sguardo: che non è consolatorio, non elude la domanda posta dal dolore, nemmeno abbozza risposte semplicistiche. Assume tutta la verità posta dalla fatica e dallo scoraggiamento, mettendole però in comunione con Gesù Cristo, guardandole come le vede Lui, in rapporto al quale quel che siamo e quel che facciamo trova luce, consistenza e forza. Così siamo incoraggiati dal Papa a spingere il dolore più in là della semplice evidenza della sua presenza, come una purificazione con la quale il Signore sta rinnovando la sua Sposa, perché egli rimane fedele al suo proposito di salvezza. A trovare nella «pratica della gratitudine» l’allargamento necessario delle nostre analisi, per riconoscere che mai è mancata, in realtà, la presenza e l’opera di Dio: magari in forme diverse da come ce le saremmo aspettate o immaginate. A entrare nella preghiera di Gesù per trovare la guarigione, la comprensione adeguata delle cose, la relazione con il nostro Amore essenziale.

Con un filo che trama tutta la lettera, il Papa ci invita a comprenderci all’interno di una relazione viva e sana con il nostro popolo: sia in quanto pastori e padri, sia in quanto pecore che continuano quotidianamente il loro cammino dietro al Signore, e che perciò non soltanto devono dare ma hanno anche necessità di ricevere dalle altre pecore una comunione che ci risana, ci sostiene, ci libera dalla tentazione dell’isolamento e dell’elitarismo, ci fa aderire alla realtà in un continuo accadere del mistero dell’Incarnazione. In questo mistero è presente Maria: «Questa sera, Signora, la promessa è sincera. Ma, per ogni evenienza, non dimenticarti di lasciare la chiave fuori». (Paolo Asolan, preside Istituto Redemptor Hominis)

9 settembre 2019