La forza del «Pastore d’Islanda» di Gunnarsson
Nell’opera, uscita per la prima volta in Germania nel 1936, lo scarto fra l’azione risanatrice del protagonista, il tumulto storico non troppo distante e l’indifferenza della natura
A 54 anni Benedikt, pastore islandese, non si stanca di andare a riprendere, lo fa sempre nei giorni che precedono il Natale, le pecore smarrite sugli altipiani spazzati dal vento nell’isola selvaggia e vulcanica ai confini del mondo («Non si sperava che avessero il buon senso di rifugiarsi sulle cime più alte»): come nella celebre parabola di Gesù (Matteo, 18, 1214, Luca, 15, 3-7, ma anche nell’apocrifo Tommaso, 107), l’uomo, tenendo al laccio Roccia, il fedelissimo montone, con il cane Leo alle calcagna a scodinzolare frenetico, avanza cocciuto dall’ultima fattoria di Botn, dove i bambini lo accolgono sempre festosi, diretto verso gli spazi vuoti, impervi e inospitali, dell’interno desolato, nei giorni più freddi della stagione invernale. Rischierà grosso, ma troverà, in mezzo alle carcasse degli animali spacciati, sette pecore ancora vive, la neve pesantissima sulla lana ghiacciata, che porterà in salvo, riuscendo a tornare a casa insieme al piccolo gregge ancora integro e sano egli stesso.
È tutta qui la trama, semplice ma ricca di evocazioni simboliche, di Il pastore d’Islanda di Gunnar Gunnarsson (traduzione di Maria Valeria D’Avino, postfazione di Jòn Kalman Stefànsson, con una nota di Alessandro Zironi, Iperborea, pp. 135, 15 euro), lungo racconto composto in danese e uscito per la prima volta in Germania nel 1936, con il titolo Advent (Avvento), al tempo in cui il nazismo si accingeva a mettere a fuoco e fiamme l’Europa. In quest’opera succinta e tuttavia molto intensa, che secondo alcuni critici costituì la matrice ispirativa de Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, l’autore, nato nel 1889 e morto nel 1975, il cui nome comparve più volte nelle liste del Premio Nobel per la Letteratura, offre il meglio di sé nel rappresentare lo scarto fra l’azione solitaria e risanatrice del pastore, il tumulto storico poi non troppo distante e la sovrana indifferenza del medesimo scenario naturale che intrigò Leopardi in una delle sue celeberrime Operette morali: «Tante tempeste infuriavano in tutto il mondo, accadevano tante cose. Perché quello era un angolino remoto della terra, appartato e pacifico, dove quasi solo il cielo era in guerra. E per il resto muschio e licheni vivevano la loro vita stentata sulle pietre, vita con cui il Creatore, nel corso dei secoli, trasforma in terra la pietra eruttata dai crateri, trasforma il fuoco della terra in vegetazione su cui si posa la rugiada di mezza estate, e la brina nelle notti d’autunno».
E così la lunga marcia di Benedikt nel cuore della notte islandese, alla ricerca delle pecore più distratte e meno avvedute, si trasforma a poco a poco in un emblema dell’avventura umana: «E non è appunto questo il mistero dell’esistenza? Che la forza che fa crescere la vita è l’abnegazione. E una vita che non è sacrificio nel suo nucleo più profondo è arrogante e sacrilega e conduce alla morte».
29 marzo 2021