“La forma dell’acqua”, favola dark firmata Guillermo del Toro

I ritmi di una tensione forte e incontrollabile, tra durezza e amarezza, compongono il ritratto di un’America anni ’50 serio e credibile, anche se plasmato da una visionarietà onirica

Ha vinto il Leone d’oro alla settantaquattresima Mostra del Cinema di Venezia nel settembre 2017, mettendo d’accordo la giuria e buona parte del pubblico. Il mese scorso è arrivata una conferma sull’alto gradimento del film con la scelta dell’Academy Award che ha riconosciuto al titolo 13 nomination agli Oscar, tra cui miglior film e migliore regia; la cerimonia si terrà il 4 marzo prossimo a Los Angeles. Con queste credenziali il film La forma dell’acqua, in sala dal 15 febbraio, si è presentato al pubblico italiano. Il racconto ci porta negli Stati Uniti degli anni Sessanta, nel pieno della guerra fredda. Elisa (Sally Hawkins), sordomuta, conduce una vita anonima come addetta alle pulizie in un segretissimo laboratorio governativo. La sua vita sembra cambiare quando fa una scoperta inattesa… Quante persone di non elevata preparazione ma di indiscusso valore sociale erano nascoste nei meandri di luoghi di lavoro tra spreco e sacrificio, eseguendo ordini senza ribattere e senza protestare, ma in silenzio osservando, ascoltando e pensando?

L’America a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60 era così: una popolazione ordinata e insieme capace di impreviste reazioni, e soprattutto di sogni. Al sogno si affida Elisa, addetta a lavori umili in coppia con la collega Zelda (Octavia Spencer), quando per caso si imbatte in uno strano essere tra il mostruoso e il pauroso, che viene tenuto nascosto e isolato con la prospettiva di eliminarlo. Il senso di protezione scatta immediato. Elisa prende per l’imprevista creatura anfibia una infatuazione simile a un sentimento di difesa e di protezione, che la induce a fare qualcosa per salvargli la vita. Sulla presenza di questo “altro”, diverso e tale da incutere paura ma allo stesso tempo richiesta di soccorso, si snoda il racconto. Che gioca a corrente alternata sulla diffidenza, sul timore mai sopito dei nemici sconosciuti dell’America, sui cittadini di diversa definizione (gli americani di colore), sul pericolo “comunista” più che mai incombente.

Elisa, all’inizio timida e poi via via più coraggiosa, affronta i rischi di una reazione seria e spavalda, una prova di forza che gli mette contro il capo/padrone. È bravo Guillermo del Toro a scandire dentro i toni di una favola dai colori neri e paurosi i ritmi di una tensione forte e incontrollabile, tra durezza e amarezza esistenziale. Il film scorre pieno di suspense, di angoscia, di aperture verso un cambiamento, alleggerito da colori forti, da un clima “noir” con molti fremiti e paure inconsce. Ne esce un ritratto di un’America anni Cinquanta serio e credibile, anche se plasmato dalla visionarietà onirica della fiaba. Diretto con polso e vigore creativo notevoli, il film ha ottenuto quel Leone d’oro che ha segnato il definitivo lancio del regista messicano a livello internazionale. A consolidare il felice momento professionale è arrivata anche la notizia che del Toro è stato scelto dal cda della Biennale di Venezia a presiedere la giuria della edizione 2018 della Mostra. Scelta che conferma la capacità del Festival italiano di saper cogliere i migliori segnali del cinema di oggi e di domani.

19 febbraio 2018