“La foresta d’acqua”, la poetica di Kenzaburo Oe

L’unica possibilità per gli uomini, nella visione amara di questo scrittore, resta evocare gli spiriti, senza sperare che riescano a darci requie

“La foresta d’acqua”, di Kenzaburo Oe (Garzanti, pp. 478, 25 euro), è un romanzo attorcigliato e vertiginoso, come una pianta che divora se stessa, una specie di rovina espressiva, lento e faticoso eppure capitale nella poetica dello scrittore giapponese, premio Nobel per la Letteratura nel 1994. Pubblicato per la prima volta nel 2009 e soltanto adesso tradotto con grande cura e dedizione da Gianluca Coci, mette al centro la figura del più classico degli alter ego: Choko Kogito, autore anziano e celebrato, da sempre legato al ricordo incancellabile del padre morto affogato tanti anni prima nella regione dello Shikoku, fra acque e alberi selvaggi che, con la loro forza primordiale, alludono al ciclo naturale, magnifico e crudele nel medesimo tempo. Il protagonista rivede il genitore in un sogno tormentoso e ricorrente, vorrebbe quindi sciogliere il nodo che ancora sembra stringerlo a lui, grazie ad alcuni documenti conservati dalla madre, arcigna e severa, in una valigia di pelle rossa.

L’idea di scrivere “il romanzo dell’annegamento” prende forma negli anni nella sua psiche alla maniera di un progetto seducente ma irrealizzabile. L’intercessione della sorella gli consentirà di conoscere la giovane Unaiko, attrice dal passato drammatico e controverso, insieme alla quale Choko cercherà di comporre una sceneggiatura in vista dello spettacolo teatrale potenzialmente risolutivo. Tuttavia le cose non andranno come auspicato e molti dei grovigli dell’una e dell’altro, sebbene resi evidenti dalla narrazione a volte quasi ipnotica, resteranno tali sino alla fine, proprio come la disabilità psico-fisica di Akari, figlio del romanziere, che entra ed esce dalla storia con le sue crisi epilettiche pronte a mettere in crisi chi si occupa di lui.

Kenzaburo Oe, portando in scena con gusto spesso malinconico e sarcastico il proprio rovello autobiografico, sprofonda nel gorgo del tempo che scorre sulla scorta di una citazione di T. S. Eliot: «Una corrente sottomarina / Gli spolpò le ossa in bisbigli. Come affiorava e affondava / Traversò gli stadi dell’età matura e della giovinezza / Entrando nel vortice» (traduzione di Angelo Tonelli). L’originale dell’ultimo verso può forse spiegare lo spirito del testo volutamente criptico: «Entering the whirlpool». Sarebbe dunque questa la “terra desolata” a cui alludeva il grande poeta? Come se, chiunque volesse far luce sul passato, fosse condannato alla cecità. In tale prospettiva la musica, praticata da Akari con la massima dedizione, diventa l’unica arte capace di farci abitare nel vortice senza illuderci di poterlo decifrare.

A un certo punto Choko Kogito, che da piccolo veniva chiamato con diminutivo affettuoso Kogii, riferisce un pensiero shintoista, al quale il padre con ogni probabilità mostrava di credere, «secondo cui, dopo la morte, le anime degli abitanti della valle fanno ritorno alla loro eterna dimora negli strati superiori della foresta». In modo discreto e suggestivo, facendo spesso ricorso a molte delle sue medesime opere, Kenzaburo Oe allude così al fallimento cui sarebbe destinata la letteratura se volesse ripristinare una norma conoscitiva di misura assoluta. L’unica possibilità concessa agli esseri umani, nella visione amara e sconsolata di questo scrittore fra i più significativi della letteratura contemporanea, resta quella di evocare gli spiriti, senza sperare che essi riescano a darci requie.

22 giugno 2020