La fede non è un fregio ma un transito d’amore
I discepoli sono persone in cammino, in perenne “uscita”. Per loro l’esodo è uno stile di vita che Gesù stesso esige. È Lui che li avvia sulle strade del mondo
«Convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi. Disse loro: “Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche. In qualunque casa entriate, rimanete là, e di là poi ripartite”. Allora essi uscirono e giravano di villaggio in villaggio, ovunque annunciando la buona notizia e operando guarigioni». (Luca cap. 9).
Nell’opera missionaria di Gesù entrano in gioco anche gli apostoli. E se il Maestro gira di villaggio in villaggio senza mai interrompere il suo “esodo” per predicare il Regno dei cieli, lo stesso dovranno fare anche i discepoli. Non vengono, infatti, chiamati per ricevere una carica di potere né per svolgere una semplice funzione di esecutori della volontà di Gesù ma per seguirlo nell’esempio e nella testimonianza. I discepoli sono persone in cammino, in perenne uscita dalle comodità, dalle sicurezze, dalle tradizioni irrigidite sul passato; sono uomini e donne coraggiosi, audaci, che guardano al futuro con fede attiva e creativa. Per loro l’esodo è uno stile di vita che Gesù stesso esige. È Lui che li avvia sulle strade del mondo e li spinge, fin dalla prima missione, perché si facciano accanto a tutti quelli che, a loro volta, arrancano in mezzo al deserto – fisico o morale – della malattia, della solitudine, del dolore. Di quelli che affrontano i tanti “scorpioni e serpenti” di cui trema la storia di tutti e non solo la vita dei beduini.
Gli “esodi” degli apostoli non sono meno faticosi di quelli di Gesù; la via degli incontri con le periferie dell’umano è irta di problemi spesso grandi come montagne. Così continua, infatti, il racconto di Luca: «Il giorno seguente, quando furono discesi dal monte, una grande folla gli venne incontro. A un tratto, dalla folla un uomo si mise a gridare: “Maestro, ti prego, volgi lo sguardo a mio figlio, perché è l’unico che ho! Ecco, uno spirito lo afferra e improvvisamente si mette a gridare. Ho pregato i tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”. Gesù rispose: “O generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi e vi sopporterò? Conduci qui tuo figlio”». Assistiamo a uno sfogo durissimo di Gesù proprio a carico dei suoi discepoli. Essi non sono stati capaci di guarire il figlio malato di un uomo, unica speranza della sua vita. E Gesù li definisce gente senza fede e, addirittura, corrotta! I frutti mancati della missione cui il Signore li aveva inviati diventano il segno della fragilità della loro fede.
Non basta, insomma, mettersi per via dietro al Maestro per dare effetto alla sua stessa Bontà. Occorre farsi forgiare proprio dalla strada, da quel crogiolo di mille volti e vicende umane che ci spiazzano, mettendo a nudo le nostre debolezze, l’inefficacia di una fede superficiale. La fede, infatti, non è un fregio personale, un’etichetta che serve a dare un’enfasi a noi stessi, ma un transito d’amore. Quando questo non c’è allora Gesù è costretto a dire che l’abbiamo corrotta.