“La casa dell’interprete”, il diario del lungo apprendistato di Ngugi

La consapevolezza di dover «decolonizzare la mente» e la scelta di scrivere in kikuyu le prime stesure della sue opere, tra fatica, dolore e incomprensioni

Lunga e tortuosa è la strada per trovare se stessi. Ngugi wa Thiong’o, nato a Limuro, in Kenya, nel 1938, è spesso caduto a terra prima di riuscirci ma si è sempre rialzato in piedi: ogni volta ha perso e guadagnato qualcosa. La sua consapevolezza al riguardo risulta emblematica: non a caso il romanzo più famoso da lui composto, “Il chicco di grano” (1967), sin dal titolo rendeva omaggio a tale prodigiosa intuizione paolina (1 Corinzi, 15, 36-37). Nelle case di paglia del remoto villaggio natale da cui proviene, con padre poligamo, tanti fratelli e sorelle, ebbe nella madre un riferimento assoluto: non fosse stato per lei, difficilmente sarebbe riuscito a frequentare, dai diciassette ai vent’anni, l’Alliance High School di Kikuyu, poco distante da Nairobi, il college dove la corona inglese avrebbe voluto formare una leva di scherani, ligi al dominio britannico. Non poteva essere e non fu così: fra quei ragazzi pieni d’energia e talento filtrò il desiderio dell’indipendenza politica, che si realizzò poi davvero nel 1963, anche se l’autonomia nazionale kenyota rappresentò soltanto una tappa verso la vera emancipazione.

Agli anni di tale lontana formazione scolastica Ngugi, il cui nome ricorre ogni autunno a Stoccolma nelle candidature per il Premio Nobel della letteratura, dedicò nel 2012 un diario da poco leggibile in italiano, “Nella casa dell’interprete” (Calabuig, traduzione dall’inglese di Maria Teresa Carbone, pp. 232, 20 euro). Anche questo è un titolo che va spiegato: nel Pilgrim’s Progress di John Bunyan, uno dei classici della letteratura inglese secentesca, che i missionari facevano leggere ai giovani studenti africani, fra le varie stazioni dell’apprendistato del pellegrino cristiano figura la dimora dell’interprete, fondamentale momento sulla via della salvezza: nella prospettiva di Ngugi, la scuola dovrebbe garantirlo. Senonché, come dimostrano le pagine del suo memoir, il progressivo assorbimento della cultura europea da parte delle giovani generazioni kenyote avveniva nella lingua, e quindi con la sensibilità, dei colonizzatori. La percezione del paesaggio africano era debitrice del sentimento di cui, ad esempio, Emily Bronte aveva intriso “Cime tempestose”. L’affabulazione narrativa derivava da Tolstoj. Il modello stilistico chiamava in causa Stevenson.

Insomma, per citare uno dei testi chiave di Ngugi, era necessario «decolonizzare la mente». Ciò comportò fatica, dolore, solitudini e incomprensioni. Forse soltanto nel momento in cui l’antico ragazzo di Limuru decise di abbandonare la lingua inglese scrivendo in kikuyu le prime stesure della sue opere, il groviglio si sciolse, anche se, dobbiamo ipotizzare, non del tutto. “La casa dell’interprete” ci riporta indietro, all’epoca del lungo apprendistato. Mentre Ngugi studiava all’Alliance High School, il fratello e la cognata venivano arrestati con l’accusa di aver partecipato al movimento nazionalista dei Mau-mau, fieramente osteggiato dal Regno Unito. Lo stesso scrittore, come racconta nell’ultimo avvincente capitolo, finirà imprigionato e poi costretto all’esilio, inizialmente a Londra, quindi negli Stati Uniti dove ancora oggi vive. Molta acqua sarebbe dovuta passare sotto i ponti prima che la coraggiosa dichiarazione di una vecchia africana, ricordata con emozione da Ngugi, diventasse vera: «Siamo tutti figli del Kenya. Tutti figli dell’Africa. Tutti figli del mondo».

25 novembre 2019