Kent Haruf, voce e ritmo dalla forza incomparabile

La scrittura del letterato americano attraversa la realtà della profonda provincia degli Stati Uniti. Con ritmo lirico e tocco leggero

La scrittura del letterato americano attraversa la realtà della profonda provincia degli Stati Uniti. La  leggerezza di tocco e l’evocazione degli ambienti urbani

E ora che la trilogia di Kent Haruf (1943-2014), è compiuta, cosa faremo? Dopo aver letto Crepuscolo (pp. 315, 18 euro), secondo tomo dell’opera che comprende Canto delle pianure e Benedizione, tutti disponibili nelle edizioni Nn, non ci resta che attendere altre traduzioni (presumibilmente di Fabio Cremonesi): i primi libri (The Tie That Bind e Where You Once Belonged) e soprattutto l’ultimo testo, Our souls at night, una sorta di testamento prima della fatale scomparsa.

Apri una sola pagina di questo grande scrittore americano e subito lo riconosci. Basta leggere due o tre frasi. Lo scenario è sempre quello di Holt, immaginaria contea degli Stati Uniti dove la vita scorre lenta e inesorabile come un fiume di acqua e fango che si trascina dietro fiori e morene, dolori e meraviglie. Il vecchio Raymond perde il fratello ucciso da un toro. Dj, dodicenne di rara sensibilità, si prende cura del nonno. Il truce Hoyt getta scompiglio nell’esistenza della sorella.

Sono queste le semplici direttrici tematiche di un mondo chiuso in se stesso che sembra non avere possibilità di redenzione e invece nasconde tesori inestimabili di dolcezze e serenità non percepibili a vista d’occhio. Il timbro di voce di Haruf, scandito dal ritmo lirico che ne dirige l’orientamento, attraversa la realtà della profonda provincia degli Stati Uniti con forza incomparabile: una leggerezza di tocco, inutilmente cercata nelle scuole di scrittura, che si esalta nella splendida evocazione degli ambienti urbani, pronti a filtrare nel racconto come scenografiche quinte di supermercati affollati, magazzini dismessi, fattorie isolate nella pianura sterminata; prende corpo nella descrizione dei passaggi stagionali, solenni e indifferenti, che lasciano un segno indelebile, quasi fossero moniti della cecità naturale rispetto alla vitalità febbrile degli esseri umani.

Il punto di maggiore intensità Haruf lo raggiunge quando parla dei più anziani e dei più piccoli: nessuno come lui riesce a rendere così autentica la solitudine del ragazzino privo di appoggi, costretto a sopravvivere da solo; del vecchio senza più affetti, alla ricerca di un’ultima consolazione. Molto spesso questi estremi anagrafici nei suoi romanzi si attraggono trovando conforto gli uni negli altri.

Si ha la sensazione che a governare l’intreccio delle vicende esistenziali sia una legge inaccessibile sulla quale lo scrittore non indaga, lasciando a noi il compito di farlo. È come se alzasse la penna sussurrando: e tu, lettore, cosa dici? Che posizioni prendi? Quale rischio ti assumi? Alla fine, mentre Raymond abbraccia Rose, l’amore estremo trovato quasi alla fine della sua vita amara e sconsolata, è il vento, come un misterioso predatore, a trionfare: «Avrebbe soffiato negli spazi aperti senza trovare ostacoli sui vasti campi di grano invernale, sugli antichi pascoli e sulle strade sterrate, portando con sé una polvere pallida mentre il buio si avvicinava e scendeva la notte».

18 ottobre 2016