“Jesus’ son”, nei racconti la vocazione lirica di Johnson

Come in un taccuino estemporaneo, le vicende drammatiche e strampalate del protagonista, sull’orlo del baratro, fra rapine a mano armata e lavori occasionali, amori falliti e bevute

Denis Johnson, scomparso nel 2017 a 68 anni, è stato uno degli scrittori americani più originali dei nostri tempi. Soprattutto a causa della sua speciale vocazione lirica che sapeva trasferire in prosa grazie a frasi che sembrano tagliate con l’accetta e descrizioni paesaggistiche sempre ben calibrate nel tessuto narrativo. Indimenticabili, fra le altre opere tradotte in italiano, restano i romanzi Angeli (1977, la fuga di una donna disperata), Train Dreams (2002, una frantumazione dei miti del far west) e Albero di fumo (2007, capolavoro sulla guerra del Vietnam); tuttavia è forse nei racconti che si apprezzano al meglio le capacità di questo stilista sopraffino: ad esempio quelli, brevi, di poche pagine molto incisive, compresi in Jesus’ son (Einaudi, trad. Silvia Pareschi, pp. 98, 16 euro). Undici pezzi il cui protagonista, giovane fuorilegge tossicomane, illustra come in un taccuino estemporaneo le proprie vicende drammatiche e strampalate, sull’orlo del baratro, fra rapine a mano armata e lavori occasionali, amori falliti e bevute colossali.

A una lettura superficiale potremmo confonderlo con un personaggio di Charles Bukowski. In realtà siamo di fronte a un profilo caratteriale sostanzialmente diverso. L’orizzonte è quello del Midwest contemporaneo (le cui nuvole sono «simili a cervelli grigi» e, quando si verifica un incidente stradale, la luce dei fari della macchine accorse«conferisce ai resti fumanti un’atmosfera da partita notturna»). I luoghi prediletti vanno dagli ospedali alle stazioni degli autobus, dai prati sporchi delle periferie ai salotti malandati delle coppie sul punto di divorziare. Alcuni tornano con frequenza ossessiva, tipo il Vine, rifugio degli alcolizzati: «Un locale lungo e stretto come la carrozza di un treno che non andava da nessuna parte», i cui avventori «cercavano di pagarsi da bere con banconote false che si erano fatti da soli, con la fotocopiatrice».

È lì che l’alter ego di Denis Johnson cerca di trovare qualcosa in grado di farlo uscire dalla solitudine e dalla tristezza. Solo in due momenti sembra riuscirci: il primo quando accompagna l’amico Wayne a prendere da alcune case abbandonate il filo di rame da rivendere: «Facendo leva nelle giunture della parete, abbiamo cominciato a staccare il cartongesso. Veniva via con un rumore di vecchi che tossiscono», in una giornata che si rivelerà memorabile. Il secondo momento di apparente felicità coincide con l’ultimo racconto, il più bello della raccolta: Beverly Home. Il vagabondo si trasforma in infermiere e scritturale nell’ospizio per vecchi e deboli d’ogni tipo: dementi, paralitici, depressi, amputati. Un campionario d’umanità derelitta. Come quel paziente ammalato di sclerosi multipla che nessuno andava a trovare: «Non poteva più fingere! Era un disastro assoluto, sotto gli occhi di tutti. Noialtri, nel frattempo, continuiamo a cercare di imbrogliarci a vicenda». La sera, tornando a casa, questo pellegrino mascherato da criminale resta incantato a vedere una coppia di amish, come se appartenessero a un altro mondo. Nelle ultime pagine incandescenti, cariche di scintille, sogni e visioni, Denis Johnson scopre sino in fondo le carte del suo uomo: «Tutti quei tipi strani, e io che in mezzo a loro stavo un po’ meglio ogni giorno. Non avevo mai saputo, mai immaginato neppure per un istante, che potesse esistere un posto per gente come noi».

16 luglio 2019