In Italia oltre 571mila imprese “immigrate”

I dati nel rapporto Idos presentato il 12 dicembre: Rapporto Idos: le attività indipendenti condotte da lavoratori stranieri (quasi un decimo di tutte le aziende del Paese) cresciute del +3,7% in un anno

Un’ininterrotta tendenza alla crescita quelle delle aziende a conduzione immigrata, che ha retto anche agli anni difficili della crisi: è la fotografia scatta dal rapporto “Immigrazione e Imprenditoria”, curato dal Centro studi e ricerche Idos, che tiene in considerazione l’indagine sulle forze lavoro di Eurostat e i dati Infocamere sulle imprese condotte in Italia dai lavoratori di origine straniera. Mentre le imprese gestite da lavoratori nati in Italia segnano nel 2016 una sostanziale stagnazione (-0,1%), le aziende a guida immigrata seguono la direzione opposta (+25,8% nell’ultimo quinquennio, +3,7% nell’ultimo anno) e si «affermano sempre più come componente strutturale del sistema economico-produttivo» del nostro Paese. Un apporto dinamico, sottolineano gli osservatori, che «si manifesta in tutti i settori e in tutte le regioni, aprendo interessanti e molteplici opportunità di sviluppo, a patto però – ricordano – di essere adeguatamente valorizzata e indirizzata lungo percorsi di progressivo consolidamento».

Turn over elevato. Ricambio diffuso «spia della precarietà di parte delle attività indipendenti degli immigrati, che finiscono per riflettere i medesimi caratteri di marginalità tipici del profilo socio-economico degli stranieri in Italia». E, non a caso, quando gestiscono un’attività di lavoro indipendente, i cittadini immigrati in quasi 8 casi su 10 scelgono la forma della ditta individuale (79,3%), 453.185): la più semplice e meno onerosa per iniziare a lavorare in proprio. Il rischio quindi è che, in assenza di adeguati piani di sostegno, parte di queste esperienze possano connotarsi come luoghi in cui lo svantaggio, invece che colmato, viene riprodotto e/o amplificato, facendo, dei percorsi che vi sottostanno, delle strategie di sopravvivenza e di adattamento, ma non di promozione socio-economica o di integrazione in senso più lato.Alla fine del 2016 sono oltre 571.255 le attività indipendenti condotte da lavoratori immigrati, pari a quasi un decimo di tutte le aziende del Paese (9,4%): un’incidenza che cresce di anno in anno e che si lega, innanzitutto, alla più diffusa propensione all’avvio di nuovi esercizi da parte dei lavoratori immigrati, tale da compensare anche il loro maggiore coinvolgimento nelle cessazioni di attività. In continuità con quanto osservato negli anni più recenti, infatti, il peso delle imprese immigrate sale a un sesto del totale se si stringe l’attenzione su quelle avviate nel corso dell’anno (16,8%), mentre scende a circa un ottavo se ci si focalizza su quelle che nello stesso lasso di tempo hanno smesso di funzionare (12,0%). Diffusa la propensione dei lavoratori immigrati a «riconoscere nella via dell’autonomia una opportuna strategia di resistenza davanti alle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro dipendente e agli accentuati rischi di esclusione sociale che ne derivano».

Crescono le forme societarie più complesse e strutturate. Secondo una tendenza ormai consolidata – e favorita dall’introduzione della cosiddetta “società a responsabilità limitata semplificata” (D.L. 1/2012) – sono le società di capitale a distinguersi, almeno in termini relativi, per gli incrementi maggiori (+59,9% dal 2011 e +10,6% nel solo 2016), in seguito ai quali rappresentano ormai un ottavo di tutte le imprese immigrate registrate nel Paese (12,2%). I dati ad oggi disponibili sottolineano come le imprese condotte dagli immigrati già contribuiscono per il 6,9% alla creazione del valore aggiunto (102 miliardi di euro), un’incidenza, anche questa, in crescita.

Protagoniste le regioni centro-settentrionali. Qui le imprese immigrate operano in oltre tre quarti dei casi (77,4% vs il 65,8% delle imprese gestite da lavoratori nati in Italia): Lombardia (19,3%) e Lazio (13,0%), e al loro interno Roma (11,4%) e Milano (9,1%), si distinguono come i territori che ne contano il maggior numero. Sono alcune aree meridionali, però – insieme alle Città Metropolitane di Roma e Milano – a distinguersi per i più elevati ritmi di aumento, a partire dalle grandi aree metropolitane di Napoli, Reggio Calabria e Palermo.

Aziende “ibride”. Nascono in Italia imprese caratterizzate dalla collaborazione di soggetti di diversa nazionalità, per lo più orientate verso il consumatore italiano. Ad oggi,  dicono i dati disponibili, solo nel 5,8% delle imprese “immigrate” si realizza la partecipazione di soggetti nati in Italia. Una realtà emergente, quella delle “imprese ibride”, di cui, grazie a un originale dataset costruito e analizzato nell’ambito di un apposito studio promosso da Intesa Sanpaolo e Università di Parma, si traccia un primo profilo.  Sono 5 le regioni con una più elevata concentrazione di imprese straniere e ibride: Lombardia, Lazio, Toscana, Emilia Romagna e Veneto. Queste regioni, insieme al Friuli Venezia Giulia, spiccano anche per intensità di diffusione del fenomeno (rispetto alla dimensione del tessuto produttivo locale).

Le “nuove” collettività. Il rapporto segnale una «progressiva apertura a un più ampio ventaglio di attività». Pur nel consolidato protagonismo di marocchini (14,5% di tutti gli immigrati responsabili di ditte individuali in Italia) e cinesi (11,4%) – concentrati nel commercio i primi e distribuiti tra commercio, manifattura e servizi di alloggio e ristorazione  i secondi –  questi si affianca una «rilevante presenza» romena (10,6%) e albanese (6,9%), entrambe segnate da una preponderante concentrazione nelle costruzioni e in crescita  nei servizi. Seguono i piccoli imprenditori del Bangladesh, protagonisti di una crescita eccezionale dal 2008 a oggi, che li ha portati ad aumentare di oltre 4 volte (+332,0%), e a rivolgere le proprie attività, che pure restano concentrate per il 66,1% nel commercio, verso una crescente partecipazione al comparto dei servizi alle imprese (17,8% e +924,6%).

13 dicembre 2017