Insegnare la lingua al tempo delle chat

Tra le urgenze del sistema formativo dei ragazzi, e non solo, le differenze tra la comunicazione verbale in presenza e in assenza. Urgente come insegnare l’italiano

Sono un insegnante di Lettere, insegno la letteratura, insegno la lingua italiana, insegno Dante, i pronomi, i complementi, ma forse l’educazione alla lingua di cui i miei ragazzi (ma non solo loro) avrebbero bisogno oggi potrebbe essere altrove. Dico questo perché, come spesso capita, l’esperienza di tutti i giorni mi ha portato di fronte a un’evidenza di cui mi pare opportuno scrivere. I fatti sono due.

Il primo episodio è esterno alla scuola e riguarda un altro contesto educativo di gruppo, nel quale è emersa una vicenda come tante, ma che in realtà è paradigmatica per i suoi riflessi che coinvolgono una intera generazione. Una ragazza, in un confronto con altri coetanei, a un certo punto racconta di un coinvolgimento sentimentale, nato e sviluppatosi del tutto tramite chat, fatta eccezione per uno sporadico incontro. Il racconto è sofferto e alla fine porta a un pianto accorato: «Mi sono trovata a scrivere cose che non avrei mai pensato di potere scrivere. Mi sento in colpa e ora ho paura di quello che potrei fare, è come se avessi perso il controllo».

Il secondo episodio, anche questo una vicenda apparentemente come tante, riguarda un contesto adulto. Un gruppo di persone non troppo intime tra loro, ma comunque accomunate da una sensibilità condivisa, che le ha portate a spendersi nel volontariato sociale e che per coordinare le proprie attività si è avvalso, come oramai capita ovunque, di una chat. Ebbene, per i motivi banali per i quali a volte possono crearsi dei fraintendimenti, una delle migliori animatrici del gruppo, persona splendida, ha attaccato duramente con un messaggio un altro compagno, generando la oramai nota a molti escalation di accuse tipica dei gruppi on line.

Che c’entrano questi due fatti con l’insegnamento della lingua? Beh, credo sia evidente per tutti come c’entrino in modo decisivo. Questi due episodi, di cui oggi ognuno di noi potrebbe portare esempi simili (l’epoca della messaggistica digitale di massa comincia ad avere una storia lunga), ci parlano dell’abc della comunicazione e della alterità assoluta della comunicazione in presenza rispetto a quella mediata, dove il grande assente è il linguaggio non verbale. È per altro sano che qualcuno potrebbe reagire a questa constatazione con un «ma come, ancora di questo parliamo? Oramai anche i sassi lo sanno che dirsi le parole in faccia e dirsele attraverso uno schermo non è assolutamente la stessa cosa». Io dico che sì è sano sottolinearlo, ma forse ingenuo.

Come tutte le rivoluzioni che hanno determinato grandi mutamenti antropologici c’è sempre una fase di presa di coscienza intellettuale (e in questo senso, nel caso della rivoluzione digitale, il percorso mi pare se non altro avviato) ma poi c’è una fase di sedimentazione nelle comuni prassi di vita che non va assolutamente sottovalutata, perché lenta e faticosa, ma proprio per questo decisiva. Ecco, io credo che insegnare la differenza tra linguaggio verbale in presenza e in assenza, dove il non verbale viene meno, sia una delle urgenze del sistema formativo dei ragazzi, ma anche degli adulti. Proprio come insegnare la lingua italiana.

20 marzo 2019