“Inno alla gioia”, testamento per un’anima da ritrovare

La conclusione delle Letture teologiche dedicata al capolavoro di Beethoven. Vallini: «Possa diventare più vero per questa nostra Europa sofferente»

La conclusione delle Letture teologiche con una serata sul capolavoro di Beethoven. Il cardinale Vallini: «Possa diventare più vero per questa nostra Europa sofferente»

«Non si tratta semplicemente di un capolavoro musicale ma di un testamento per un’anima che l’uomo deve ritrovare». Così monsignor Marco Frisina, presidente della Commissione Arte sacra e beni culturali della diocesi di Roma, ha definito l’Inno alla gioia di Ludwig van Beethoven. La parte finale della sinfonia n. 9, completata nel 1824, è stata al centro dell’ultima serata delle Letture teologiche tenutasi ieri, giovedì 28 gennaio, nella Sala della Conciliazione del Palazzo Lateranense. Un incontro aperto sulle note di Beethoven, eseguito dagli allievi del Conservatorio di Santa Cecilia.

L’artista tedesco scrive questo Inno «al tramonto della sua vita, in un periodo doloroso e con difficoltà incredibili: la sordità quasi completa e una solitudine diventata anche una protezione», ha sottolineato monsignor Frisina. Che ha spiegato come i quattro tempi della sinfonia n. 9 rappresentino «la sintesi della sua vita, perché sono un progresso che ci porta fino alla gioia. Il finale è un messaggio all’intera umanità: il testo (preso dall’ode Inno alla gioia di Friedrich Schiller, ndr) recita “siate fratelli perché in cielo c’è un unico Padre che ama tutti”». Un messaggio che emana la sua forza ancora oggi. «In questo anno giubilare che il Papa ha voluto dedicare alla misericordia, straordinaria potenza del cuore di Dio, credo che l’Inno alla gioia possa essere ancora cristiano» e che «ritrovare la gioia come chiave di lettura della vita sia fondamentale».

Per terminarlo, Beethoven impiega ben 30 anni. Lo ha spiegato Michele Dall’Ongaro, sovrintendente dell’Accademia di Santa Cecilia, traendone un forte insegnamento per tutti: «Non bisogna mai accontentarsi del primo tentativo ma bisogna innovare sempre. Questa è la lezione di Beethoven» che, non contento, vi rimise mano per ben tre volte. «Non c’è nulla che Beethoven non abbia già fatto» a livello tecnico come, ad esempio, il recitativo affidato all’orchestra, che “parla” musicalmente come fanno i cantanti all’Opera, ha quindi spiegato proponendo l’ascolto di alcuni brani. L’altro grande messaggio, ha concluso Dall’Ongaro, è che «siamo tutti fratelli, compresi i nemici» perché nell’inno Beethoven inserisce il tema musicale tradizionalmente legato ai turchi, invasori. «Anche loro partecipano all’inno alla gioia e l’artista lo dice anche con le parole».

Non a caso, ha sottolineato Eugenio Gaudio, rettore della Sapienza, «l’Inno alla gioia, dal 1972, è l’inno dell’Unione europea. Usando il linguaggio universale della musica, esprime gli ideali di libertà, pace e solidarietà». Il rettore che, oltre ad essere medico è anche diplomato in pianoforte al Conservatorio de L’Aquila, ha evidenziato la novità dell’opera di Beethoven, giunto a una «dissoluzione degli schemi formali che avevano ingabbiato la forma-sonata» attraverso «l’irruzione prepotente della poesia e del relativo canto». La Nona Sinfonia, dunque, può essere paragonata a «un bilancio complessivo dell’esperienza artistica e dell’evoluzione spirituale di Beethoven», passato dal «titanismo giovanile» a una «religiosità profonda che dà significato all’uomo solo all’interno di una fraternità universale».

«In queste tre serate – ha concluso il cardinale vicario Agostino Vallini – con Michelangelo, Caravaggio e Beethoven abbiamo assaporato qualcosa di alto e di grande, imparando che anche il travaglio umano e la lotta interiore possono avere uno sbocco. Dobbiamo credere che è possibile un mondo migliore. Nell’anno della misericordia, diventiamo missionari perché l’Inno alla gioia possa diventare più vero per questa nostra Europa sofferente».

29 gennaio 2016