Incarnare il Vangelo nel mondo del lavoro

Un’inchiesta di Roma Sette sulla realtà dei “preti operai” nel settembre 1979: poveri con i poveri

«Le baracche ci sono ancora a Roma. Guardate come ci siamo ridotti, perché nessuno pensa a noi». È la voce di alcune madri, unita al lamento dei loro bambini, e sono tanti. Zingari e non zingari, gente emarginata e immigrata a Roma, baraccati di ogni età, gente disoccupata. Sul loro volto le colpe della città, la quale ha divorato nella sua stessa crescita tutto ciò che è gracile, indifeso e povero. Qualcuno si è messo a tempo pieno dalla parte di questi disgregati ed emarginati dalla grande città. La periferia romana dei baraccati ha visto alcuni preti farsi poveri coi poveri, operai con gli operai; li ha visti al lavoro quotidiano, manuale, e li ha chiamati perfino i propri «profeti», i «santi minori» della carità ispirata dal cristianesimo.

Le prime tenui notizie su «qualche prete che aveva lasciato la vita pastorale (tradizionale) per darsi al lavoro manuale a Roma» risalgono al ’68. Si può dire che comincia con la «Roma moderna» di Insolera (Einaudi 1971) la ricerca di «un lavoro dei preti operai della Diocesi, i quali pongono un discorso alternativo a livello pastorale ed ecclesiale». La fede cristiana è messa a rischio dal suo stesso bisogno di incarnarsi. Bisognava fare qualcosa, per frenare l’emarginazione dei baraccati e degli zingari, che stavano attaccati a grappoli alle capanne lungo l’Acquedotto Felice, nel quartiere Tuscolano, o disseminati come erba selvatica nel Borghetto Prenestino. Il Comune non mancò di prendere in esame la situazione, ma i rimedi furono scarsi e lenti.

Il prete operaio ha queste premesse sociali: il mondo del lavoro, i problemi delle masse operaie, alle quali porgere in maniera nuova e pratica la liberazione, contenuta nel Vangelo. Egli non lavora per lavorare. Le sue scelte nascono dalla fede, sono finalizzate praticamente alla promozione umana e cristiana dei lavoratori. «Il movimento (dei preti operai) – secondo un documento stilato a Viareggio quest’anno – si confronta con le realtà della emarginazione, dell’inserimento handicappato, della malattia mentale; con il problema di una nuova moralità del lavoro, con i mass medie e i modelli consumistici indotti».

È utile ricordare un po’ di storia, per capire la scelta dei preti operai romani. «Lione 1860: si costituisce – dice monsignor Guido Charvault del Centro Pastorale del Vicariato – il “Prado”, locale dove il sacerdote Antonio Chevrier riunì la prima associazione di sacerdoti diocesani. Dovevano vivere i consigli evangelici e mettersi al servizio dei più poveri, con l’approvazione del vescovo. Invece, i preti operai sono nati in Germania, durante la guerra: al posto del servizio militare, era obbligatorio per essi un periodo di lavoro nelle fabbriche tedesche. Giovani e preti francesi affluirono in Germania per il lavoro obbligatorio. Ai sacerdoti era proibito portare l’abito. Il Cardinale Sugard, nel 1943 – tempo della missione di Parigi – invitò i preti a fare l’esperienza, che si era vissuta in Germania: testimoniare il vangelo nei quartieri poveri della città. Nel 1953 fu addirittura il vescovo Alfredo Ancel che volle rimanere personalmente tra i preti operai, per cinque anni, a Lione»

La vicenda francese ha interessato sempre più l’Italia. «Il Prado – spiega monsignor Charvault – inizia in Italia negli anni ’60. La missione di Parigi e l’Associazione del Prado avevano quasi il medesimo obiettivo: la evangelizzazione dei quartieri scristianizzati e più poveri. Nel corso di questa esperienza missionaria, alcuni preti si orientavano al lavoro, per conoscere più direttamente gli ambienti della emarginazione religiosa. Ecco, sono questi i primi preti operai, che lontani dalla contestazione, portavano la propria testimonianza cristiana, in comunione con il vescovo».

I preti operai, a Roma, iniziarono il loro cammino in condizioni abbastanza dure. Si era negli anni ’70. Bisognava imparare un mestiere, raccogliere cartoni per la città, fare il contadino, lavorare nella edilizia, fare lo scaricatore nello scalo ferroviario di S. Lorenzo. Nel 1972 si fanno più regolari gli incontri tra di loro: insieme trattano i vari problemi, fanno le proprie scelte, si impegnano tra i baraccati e nella realtà della scuola e del lavoro manuale. Nel 1974 assumono spontaneamente la denominazione di «preti al lavoro». Pare uno slogan militaresco: invece intende esprimere una nuova scelta di fede per questi uomini. (Giuseppe Coluccia)

16 settembre 1979