“In tutto c’è stata bellezza”, memorie di famiglia da Manuel Vilas

In 157 capitoli e rare fotografie quasi scheggiate dall’album domestico, l’autobiografico rendiconto di un uomo impegnato a ricordare i genitori scomparsi e la Spagna degli ultimi decenni

Mentre stavo ancora finendo di leggere “In tutto c’è stata bellezza” di Manuel Vilas (Guanda, traduzione di Bruno Arpaia, pp. 409, 19 euro), d’istinto ho ripreso “Le Coplas por la muerte de su padre” di Jorge Manrique: «Nuestras vida son los rìos / que van a dar en la mar, / que es el morir…» («Nostre vite sono i fiumi / che vanno a dare nel mare, / che è il morire», nella versione di Gualtiero Cangiotti). Questo capolavoro assoluto della letteratura spagnola, composto nel 1477, è lo scenario ideale lontano ma sempre presente in cui collocare il lungo, ininterrotto, sorvegliato monologo criptoromanzesco del poeta e narratore, nato a Barbastro, poco distante dai Pirenei, nel 1962, il quale non certo a caso, nel gruppo di liriche finali che chiude la sua opera, rende esplicito omaggio a Manrique citandolo in esergo al ricordo del padre tanto amato quanto sfuggente e misterioso, le cui ossa finirono bruciate in un anonimo crematorio.

Il testo di Vilas, scandito in 157 capitoli e rare fotografie quasi scheggiate dall’album domestico, è l’autobiografico rendiconto di un uomo impegnato a ricordare i genitori scomparsi e, attraverso di loro, la propria famiglia e la Spagna degli ultimi decenni. Lo spunto sembra antiproustiano: «Maliziosamente, sapeva che nulla dev’essere ricordato. Questo vuol dire avere competenza sulla morte». Ma dolce e coinvolgente appare il desiderio di rimestare nel passato, allo stesso modo in cui ha fatto Alfonso Cuarón nel suo recente bel film “Roma”. Il tono intimo e allo stesso tempo stilisticamente spregiudicato di Vilas, con frequenti passaggi lirico-descrittivi, conferisce al racconto una grande originalità. I contenuti tematici sono ordinari: non c’è nulla di eroico o avventuroso nelle vite rievocate, compresa quella del protagonista, ex alcolizzato appena divorziato, alle prese coi figli ai quali ha dato nomi di famosi musicisti. Lo dichiara lui stesso: «La mia è stata una storia comune. Una storia come quella di migliaia di spagnoli, o di migliaia di esseri umani». Proprio per questo risalta ancora di più lo sguardo narrativo, intriso di un sentimento tragico e disincantato.

Tuttavia l’ultima pagina, in cui lo scrittore richiama alla mente la notte in cui venne concepito dai suoi genitori, è un inno alla potenza del mondo: «Sono entrambi giovani e si preparano a chiamarmi dall’oscurità. Non sono. Non sono mai stato. Tuttavia, sono stato presentito da tutte le cose milioni di anni fa. Tutti siamo stati presentiti». Eppure ogni cosa pare destinata a dissolversi nel giro di una o due generazioni; non possiamo farci nulla, se non apprezzare la vita nella sua vibrante pulsione quotidiana. Quando muoiono i nostri cari, o noi stessi ci ammaliamo, allora scopriamo la verità: «È la più grande rivincita della natura, che si presenta nelle stanze degli ospedali e distrugge i patti umani, distrugge il patto dell’amore e il patto della famiglia e il patto della medicina e il patto della dignità umana e convoca la risata degli altri morti, dei morti antichi, che ridono del cadavere appena arrivato». È anche la ragione per cui il libro in originale s’intitola “Ordesa”, una montagna ai confini tra Francia e Spagna, molto simile al busto di donna che, nelle Operette morali, Giacomo Leopardi immagina si presenti all’Islandese in dialogo con la Natura. Altera e indifferente, diremmo noi. E, vogliamo presumere, confermerebbe Vilas.

25 febbraio 2019