In Terra Santa tra le pietre vive

Concluso il viaggio dei giornalisti Fisc tra Israele e la Giordania. Visita al centro don Orione di Zarqa dove sono accolti profughi siriani e iracheni in fuga dall’Isis. A Betlemme tra i bambini dell'”Effetà Paolo VI”

Ci sono città che esistono solo nella mente di chi le immagina. Gerusalemme è una di queste. Fino a quando arriva il giorno in cui pietre e polvere, sole e vento, sguardi e odori, danno consistenza a quelle pre-figurazioni. L’autostrada che collega Tel Aviv alla Città Santa è trafficatissima quando il gruppo di giornalisti della Federazione italiana settimanali cattolici (Fisc) si trasferisce dall’aeroporto alla parte est di Gerusalemme. L’arrivo è previsto per le 18 di martedì 11 novembre, ma il ritardo inizia a farsi cospicuo già lungo la via che tocca Emmaus. Poco più avanti, sui bordi della strada, i resti dei combattimenti della cosiddetta Grande rivolta araba: alcune camionette e residuati bellici del 1936. La Città Santa prende forma tra le bianche colline di calcare fra le quali scorre, nell’ultimo tratto, il fiume di automobili. Tutto si conclude a Gerusalemme, da qui tutto riparte. C’è giusto il tempo di visitare, in notturna, le vie della città vecchia. Il giorno successivo bisogna ripartire, all’alba. Con il sole, si alzano in cielo anche i palloni aerostatici dell’esercito israeliano. Controllano dall’alto i quartieri arabi.

La destinazione è Zarqa, in Giordania. In poco meno di 30 chilometri si passa dal cemento della città alla terra brulla, bruciata dal sole. Dagli 800 metri sul livello del mare di Gerusalemme si precipita a quasi meno 400, sulle rive del Mar Morto. Il pulmino scende in picchiata lungo l’autostrada; gli accampamenti dei beduini sfrecciano dai finestrini. La cima delle colline resta presidiata dai pezzi pesanti dell’artiglieria con la croce di Davide. Il passaggio del confine non è traumatico come fa pensare la guida locale. Una volta usciti dal check point e fatto qualche chilometro in terra giordana, il paesaggio si fa ancora più arido. Nonostante il fiume in cui Giovanni battezzò il Nazareno non sia troppo lontano, qui l’acqua è poca, e il terreno si fa pietra che non ne vuole sapere di essere coltivata.

J. ha ancora negli occhi i daesh che arrivano e fanno piazza pulita del suo villaggio. Sono i guerriglieri dell’Isis che hanno invaso, i primi di agosto, Qaraqosh; la più grande tra le città cristiane che si allargano sulla piana di Ninive, in Iraq. La donna, adesso, è stesa su un letto con una gamba dolorante. Si è ferita durante la fuga che l’ha portata a nord-est di Amman, passando la frontiera giordana. Qui ha trovato l’ospitalità della Fondazione don Orione che ha accolto la sua famiglia e tante altre provenienti non solo dall’Iraq ma anche dalla Siria. Gli orionini, coordinati da don Alessio Cappelli, gestiscono anche una scuola frequentata da 580 ragazzi, quasi tutti musulmani. Ogni 15 giorni, 150 famiglie siriane della zona di Homs si recano alla Fondazione, finanziata anche dall’8×1000 della Cei, per ritirare un voucher, che varia dai 40 ai 70 dinari (quasi l’equivalente in euro) con cui faranno la spesa.

Seconda tappa della giornata, l’Università cattolica di Madaba. Nata a partire dal 2009 per iniziativa del Patriarcato Latino di Gerusalemme, oggi la struttura conta 1300 studenti (38% cristiani, il resto musulmani). Luogo, anch’esso finanziato dalla Cei, nel quale – come disse il patriarca Fouad Twal – «valori come la pace e l’integrità morali sono ricercate allo stesso modo che la conoscenza e il sapere scientifico». Qui, dice il presidente dell’Università, George Hazboun, «educazione e istruzione sono strumenti da privilegiare per costruire una convivenza civile e contrastare le tensioni che stanno segnando Gerusalemme e il Medio Oriente».

Parole che si fanno concrete non appena, tornati in Israele, si varca il muro che separa Betlemme dal resto del mondo. La tensione, qui, si è fatta cemento armato alto 8 metri. Gli israeliani hanno inglobato gran parte delle colonie e la quasi totalità dei pozzi d’acqua. Al di là dei 730 chilometri di barriera restano i palestinesi, anche quelli che abitano a Betlemme. Da dieci anni non è più possibile uscire facilmente dai suoi 30 chilometri quadrati. Non si può andare a lavorare fuori, non si può andare a studiare fuori. Si resta dentro, confinati. La percentuale di bambini audiolesi, in questi dieci anni, è cresciuta esponenzialmente. Sia per tradizione, sia a causa di questo isolamento, qui i matrimoni tra consanguinei son all’ordine del giorno. Ad occuparsi di questi bambini, ormai dal 1971, l’istituto “Effetà Paolo VI” che accoglie 172 alunni, dai 18 mesi ai 19 anni di età, provenienti da tutta la Palestina. A Effetà «la nostra speranza è questa – dice la direttrice dell’Istituto, suor Piera Carpenedo -: che per ogni bambino sordo che entra, esca un ragazzo autonomo, capace di volere, di relazionarsi con la società, di scegliere, di prendere le proprie responsabilità e affrontare il suo futuro».

La stessa autonomia che, alla scuola salesiana di Betlemme, insegnano ai ragazzi palestinesi. Arti e mestieri che qui sono preziosi per sperare in un futuro autonomo, lontano dalla violenza di un’intifada dell’anima che cova nei loro cuori, quotidianamente. «Abbiamo un forno con il quale sfamiamo ogni giorno più di 80 famiglie – dice orgoglioso don Daniele, direttore della struttura – e, nello stesso tempo, insegniamo ai nostri ragazzi a fare il pane». L’8×1000 viene impiegato anche per questo. Non solo in Italia, non solo per i cattolici. I ragazzi che imparano i mestieri dai salesiani sono quasi tutti musulmani, come i bambini di Effetà.

Oltrepassato il varco della barriera di separazione, non lontano dal quale campeggia un’effigie bizantina di una Madonna piangente, Betlemme si allontana richiudendosi nel suo scrigno di pietre levigate. Sulla strada verso l’aeroporto, ricompare la Città Santa. Gerusalemme è un miraggio. Resta lì, nell’immaginazione di chi la pensa, la mia.

 

24 novembre 2014