Il volto di Maria Chiara e le mancanze verso i giovani

Dalla vicenda della giovane morta a 18 anni una riflessione su una società assuefatta all’individualismo e su una contrazione totale di spazio per chi arriva dopo

In questi giorni di allarme, di discorsi compulsivi su numeri e responsabilità, di code ai tamponi e aggiornamenti su palestre e ristoranti, ci stiamo perdendo l’ennesimo pezzo di coscienza collettiva lasciando che il volto di Maria Chiara Previtali, morta a diciotto anni, svanisca tra le nostre paure. Eppure bisognerebbe fermarcisi al volto di Maria Chiara, sì, a quel volto. Non ai rilanci a termine sui pochi euro che l’hanno portata via, non alle responsabilità di chi materialmente non le è stato accanto, nemmeno al copione degli appelli accorati e delle lacrime del giorno dopo come un catalogo da repertorio. Solo fermarsi per un attimo a quel volto.

Il volto di Maria Chiara, Maria Chiara che aveva diciotto anni, andrebbe trattenuto negli occhi, nelle emozioni, nei ragionamenti che non lasciano tranquilli, per interrogarci sul come ci stiamo dimenticando di una generazione intera. Perché a volte mi pare davvero che il nostro mondo sia diventato quel posto dove il seme avvelenato dell’individualismo di alcune generazioni abbia a un certo punto bruciato la terra di chi è arrivato dopo. Da una parte chi ha avuto in sorte un’ascesa e una realizzazione ancora oggi dovute, anche se giunti in limine, ma dalla stessa parte anche chi, parcheggiato nell’attesa, nella rabbia, nella pretesa che un giorno arrivasse il proprio momento, s’è comunque messo in coda dalla parte coperta della storia: generazioni diverse ma accomunate nell’ accampare una prerogativa, realizzata o frustrata che fosse, su presente e futuro. Dall’altra parte, dalla parte scoperta della storia, Maria Chiara, i fratelli e le sorelle di Maria Chiara. Quei ragazzi e quelle ragazze venuti al mondo quando la perdita definitiva del senso della comunità, del lascito intergenerazionale, li ha relegati a un futuro possibile solo nella proiezione di quanto avremmo deciso per loro, nelle briciole concesse dai nostri progetti perenni, una generazione destinata a solitudini spesso ovattate e coccolate ma comunque tali o che a volte, drammaticamente, possono diventare tragiche come nel caso di Maria Chiara.

Ora siamo qui, preoccupati, angosciati per quello che ci aspetta, per quello che potremmo perdere. A fronte della legittima ansia e della necessaria assunzione di responsabilità, in questi giorni mi è parso di percepire la solita cappa malata d’egoismo. La non gestione di fatto della questione simbolica della scuola, il non occuparsi per tempo di problematiche chiare a tutti da mesi (trasporti, spazi e organici adeguati) mi sono sembrati l’ennesima dimostrazione negativa di quanto chi verrà dopo di noi sia solo e soltanto nei proclami in cima alla lista delle priorità sociali.

C’è una mancanza che avverto dal mio insignificante punto di vista, una mancanza che per primo sconto come senso di colpa e che ha a che fare con la reale disponibilità ad andare oltre se stessi, una mancanza oramai endemica in una società assuefatta all’individualismo narcisistico e che si traduce in una contrazione totale di spazio per chi arriva dopo. Questo tempo ci spaventa perché ci mette collettivamente di fronte al limite, all’impotenza, di fatto di fronte all’evidenza della morte. Potrebbe essere la salvezza di tutti, nella misura in cui ci facesse riscoprire il senso stesso di essere per l’altro, per Maria Chiara, per tutti i figli e tutte le figlie come lei.

21 ottobre 2020