“Il tunnel”, la valenza simbolica nel romanzo di Yehoshua

La storia di un ingegnere settantenne e della moglie Dina, nel deserto biblico dove arabi ed ebrei si contendono lo stesso terreno. Una corsa verso le rovine

Abraham Yehoshua, nato nel 1936 a Gerusalemme, da molti considerato il più grande scrittore israeliano dei nostri tempi, ha cristallizzato negli anni la propria tecnica narrativa, sino a farne uno strumento conoscitivo di prim’ordine. I suoi romanzi sono apparentemente classici con personaggi ordinari e storie quotidiane che traggono spunto dalla realtà familiare e soltanto a lettura ultimata lasciano filtrare una spiccata carica metaforica. Come quest’ultimo, “Il tunnel” (Einaudi, pp. 334, traduzione di Alessandra Shomroni, 20 euro), dove tutto assume valore simbolico, a partire dalla commovente figura del protagonista, il settantenne ingegnere Zvi Luria, pensionato affetto da una grave malattia degenerativa cerebrale che rischia di condannarlo a una precoce demenza senile. Gli può capitare di non ricordarsi più nemmeno il suo nome e una volta, quando è andato all’asilo a prendere il nipote per riaccompagnarlo a casa, ha sbagliato bambino. Il neurologo, per combattere il male, gli consiglia di non abbandonarsi all’inerzia e lui, abituato a costruire strade e ponti, si mette a disposizione di Assael Maimoni, il quale ha preso il suo posto come capo cantiere nell’azienda pubblica Percorsi di Israele.

Come spesso in Yehoshua – straordinario cantore del matrimonio, peraltro vedovo di Ika, scomparsa nel 2016, alla quale il libro è dedicato – anche qui risulta determinante il rapporto coniugale del personaggio chiave. La moglie di Luria si chiama Dina, è una pediatra, dolcissima e premurosa: evidente il nesso evocativo fra l’incipiente vecchiaia di Luria e l’infanzia dei pazienti in cura presso la dottoressa, la quale si ammala anche lei, forse contagiata da qualche piccolo. Il fiume scorre e noi non possiamo far altro che assistere sgomenti alla nostra fine. La storia nel frattempo divampa, specie nel deserto biblico dove arabi ed ebrei si contendono lo stesso terreno. L’ingegnere si trova invischiato in una vicenda spinosa che riguarda proprio il conflitto fra i due popoli perennemente contrapposti. L’autostrada da progettare attraversa una collina abitata da gente priva di identità, che dopo tante lotte non sa più come definirsi. Maimoni vuole bucare la roccia con una galleria, Luria propenderebbe invece per spianare l’altura: «Livellare è più economico che traforare». E tutto questo mentre l’ingegnere, assediato dal progressivo declino mentale, è costretto a tatuarsi sull’avambraccio il codice dell’antifurto.

A contare nel romanzo, oltre a questi personaggi attraverso cui passa il filo tematico, sono i comprimari: la cameriera, il nipotino, i figli, il militare che offre un passaggio all’anziano smemorato. Su tutti s’incide Aladin, il giovane che ha venduto un rene a suo cugino e scommette cento shekel con Luria di poter vedere addirittura il Giordano dal tetto dell’ospedale. Tuttavia dal terrazzo si scorgono solo decrepite cupole di minareti. Il ragazzo insiste e, indicando l’orizzonte lontano, dice: «Il Giordano è là. In secca però. Gli hanno portato via l’acqua, gli è rimasto solo il nome». Non è accaduto lo stesso alla Palestina? Sarà una corsa verso le rovine: non solo quelle dell’inesorabile sfacelo cognitivo di Luria, anche i reperti archeologici dei nabatei che stanno da sempre sotto la collina: antiche genti arabe che, secondo una battuta di Ben Gurion (memorabile la visita alla sua tomba), non fecero in tempo a diventare ebrei.

11 febraio 2019