Il tempo di trovarsi dolorosamente grandi

I volti dei ragazzi, della via di casa, del paese remoto le storie sconosciute dietro i volti dei ragazzi, noi adulti che siamo arrivati a non sopportare questi ragazzi

Sabato pomeriggio, la settimana è finita, fa freddo, le strade sono intasate dal Natale dei negozi. Esco di casa, c’è già poca luce, per strada ma anche nei miei pensieri. Mi metto in macchina per andare a trovare una persona, non vicina ma cara, sta combattendo l’ultima battaglia nel centro di cure palliative della mia città. La struttura è immersa tra gli alberi, poco fuori le mura, c’è silenzio per i corridoi, la luce è bassa e delicata, le voci sono gentili, le cortesie, «volete una tisana», il personale discreto, lei su quel letto.

Dopo un tempo di parole e sguardi esco sul corridoio, mi hanno chiesto di prendere al distributore automatico una bottiglietta d’acqua. Entro in uno stanzino e incrocio un volto prima incredulo ma che poi si apre in un sorriso: «prof, che ci fa qui?». Qualche istante e lo riconosco. Uno studente della mia scuola, non un mio alunno, ma della sezione parallela al mio quinto diplomato l’anno passato. «Quanti gol hai fatto poi alla fine?» gli chiedo. Lui si allarga in un sorriso ancora più grande: «Ma allora si ricorda proprio di me». Sì, mi ricordo di te.

Mesi fa, sarà stato gennaio, venni mandato per una sostituzione nella sua classe. Una classe pessima, indisciplinata e maleducata. Fu un’ora pesante, difficile tenerli tranquilli nonostante i miei sforzi: «Un’ora buttata», devo avere pensato. Lui era l’unico in silenzio, ma semplicemente perché dormiva senza ritegno al primo banco, accoccolato tra le braccia, proprio di fronte ai miei occhi. Ricordo a un certo punto di averlo svegliato spazientito e in malo modo. «Mica davvero si possono permettere tutto questi ragazzi».

Lui mi sorrise, «mi scusi ieri sera, ho lavorato». Mi chiese cosa insegnassi, iniziammo a parlare di calcio, mi disse che faceva la punta nella squadra del suo paese, giocava nel campionato provinciale. «Ma segni qualche gol?». «Tanti», disse orgoglioso. Da quel giorno, fino alla fine dell’anno, lo incontrai per i corridoi diverse volte. La domanda era sempre la stessa: «hai segnato?». Il suo sorriso sempre lo stesso. Poi giugno, gli esami, lo persi di vista, un altro volto come tanti passato e svanito come un soffio nella mia vita di insegnante.

«Sono qui perché la mamma sta male, tanto», mi dice. «Quanti anni ha tua madre?». «Quarantotto». «Hai fratelli?». Lui sorride, «siamo quattro, eccoli che passano». Mi indica tre ragazzini aggrappati a un padre per il corridoio. «Vengono pure gli zii tra poco, il biglietto aereo dal nostro paese costa caro, ma forse ne hanno trovato uno economico». «Lavori?» gli chiedo. «Sì, ho iniziato, ma gioco ancora a calcio». «Bravo» gli dico, «non smettere mai, sei una punta forte. Sei un ragazzo proprio forte». Ci abbracciamo, lui esce dallo stanzino e raggiunge padre e fratelli.

Mi siedo sul divanetto di fronte al distributore. La scuola, il rumore quotidiano di quel sabato mattina passato tra i corridoi e le aule con la testa già alla domenica, il silenzio dei corridoi di questa sera, questo luogo. I volti dei ragazzi, della via di casa, del paese remoto, le storie sconosciute dietro i volti dei ragazzi, noi adulti che siamo arrivati a non sopportare questi ragazzi. Il tempo degli zaini trascinati tra risate e battute volgari, il tempo di ritrovarsi di colpo e dolorosamente grandi. Un calcio a un pallone, questa tristezza che troppo spesso ci invade senza ritegno, tutta la vita in quel sorriso che mi ha fatto sentire piccolo, insufficiente, grato. A tra quindici giorni.

 

5 dicembre 2018