Il sorriso dei ragazzi per «rimettere al loro posto le cose»

La sensazione di trovarsi già col fiato corto all’inizio dell’anno scolastico, la tenerezza per coloro che la condividono, il regalo inatteso di uno studente

Ieri mattina, prima di entrare in classe, ho bevuto un caffè con una collega che è mia amica. Ci rincontravamo dopo l’estate, così abbiamo scambiato due parole su come stesse andando la ripresa scolastica ma anche familiare. Lei mi ha detto che sentiva di iniziare meglio quest’anno e alla mia domanda se fosse stato per un’estate serena, ha risposto così: «Guarda, no. Non è stata tanto l’estate, quanto il fatto che questo anno e mezzo di chiusure, se devo dirtela tutta, mi ha fatto bene, mi ha permesso di tirare il fiato e di rimettere al loro posto le cose». La campanella è suonata, ci siamo salutati ma mentre mi avviavo in classe mi sono ritrovato a pensare alle sue parole.

Quell’idea di «rimettere al loro posto le cose» l’avevo percepita come un’intenzione familiare, una prospettiva che anche io m’ero dato nei mesi in casa, un’occasione da cogliere perché, come forse in tanti ci siamo detti allora, non sarebbe stato affatto un male che tutto non «sarebbe tornato come prima», anzi: certi ritmi folli, tempi e spazi sbagliati, una vita scandita dalle rincorse e che non avrebbe potuto che giovare del «rimettere a posto le cose». Il fatto è che mi ritrovavo però a pensare che io ieri mattina ero arrivato a scuola già stanco morto e che soprattutto quello che mi si para di fronte non è affatto un anno con «le cose rimesse a posto», tutt’altro: il solito caos e la solita montagna pendente di impegni che incombe, pronta a crollare addosso a chi non ha imparato la lezione. La cosa in sé lì per lì mi ha abbattuto ma poi, a fine mattinata, mi sono congedato da quel pensiero con una forte percezione ma anche grazie a un regalo inatteso.

La percezione avuta è stata un moto di tenerezza, sì, di forte tenerezza, verso me stesso e chi come me sente in questo periodo di essere già col fiato corto, ma perché ha a che fare con il rimettere in piedi quell’universo invisibile che sono le nostre case, i nostri affetti messi sotto tiro, i figli e le loro domande, i silenzi e le loro code, i pensieri che si accavallano, il senso d’insufficienza. Tenerezza per chi porta con sé quel senso di spossatezza che non si racconta né si legge, che spesso buttiamo sotto il tappeto come senso di colpa, come se le nostre vite consumate dietro stanchezze che sembrerebbero non avere cittadinanza nella grande storia fossero giusto il sedimento silenzioso di una caduta inesorabile che non possiamo che scontare. Ecco, con chi ha a che fare con tutto questo, condivido anzitutto un forte moto di tenerezza.

Il regalo, inatteso, me l’ha consegnato invece il solito quindiciventenne, che poi è anche l’anima di questo spazio. Suonata l’ultima campanella mi sono ritrovato sul corridoio tra le classi che, ordinate e distanziate (si fa per dire), sciamavano verso il cancello della scuola. Incrociato lo sguardo di un mio alunno, l’ho salutato: «A domani», «a domani prof», mi ha risposto. «Tutto bene questi primi giorni?» gli ho chiesto, «tutto bene, grazie, alla grande», e il suo sorriso è stato allora così improvviso da fargli scivolare giù la mascherina, fino a scoprirgli il viso bello, bellissimo. Mi ci voleva quel sorriso, ci vuole per tutti noi.

29 settembre 2021