“Il ritratto del Duca”, il giallo del quadro

In sala dal 3 marzo la pellicola di Roger Michell presentata fuori concorso alla 77ª Mostra di Venezia. Il protagonista: un uomo comune sempre dalla parte dei fragili, dei più vulnerabili

Kempton Bunton vive a Newcastle, è un uomo pieno di ideali ed è stato in carcere per essersi rifiutato di pagare il canone televisivo. Nel 1961 ruba Il ritratto del Duca di Wellington dipinto da Francisco Goya dalla National Gallery di Londra, primo (e tuttora unico) furto nella storia della Galleria. «Tratto da una storia vera», si dice nei titoli di testa de Il ritratto del Duca (The Duke), film del 2020 presentato fuori concorso alla 77ª Mostra internazionale di Venezia, uscito in sala il 3 marzo scorso, con il ritardo dovuto alla pandemia. Mai come stavolta la notazione risulta pertinente, perché il personaggio è autentico e altrettanto si può dire dei fatti che seguirono. Dopo il furto, Kempton invia una richiesta di riscatto, scrivendo che avrebbe restituito il dipinto a patto che il governo inglese si decidesse a stanziare più fondi per la cura degli anziani. Kempton è sostanzialmente un uomo buono che vuole apparire onesto anche quando commette qualche crimine. Per questo nel luglio 1965 a Scotland Yard rilascia una dichiarazione scritta in cui ammette la sua colpa.

Nel processo che segue, Kempton viene difeso da un insigne avvocato che costruisce in modo molto ingegnoso la difesa dell’imputato. Sempre tenendo Kempton al centro della vicenda, il racconto allarga lo sguardo anche sul resto della sua famiglia. A poco a poco, conosciamo sua moglie Dorothy, principale fonte di sostentamento della famiglia con la sua misera paga di donna delle pulizie; con il figlio Jackie, intenzionato a sposarsi con Irene, e con il triste ricordo di Mariam, la figlia maggiore morta in un tragico incidente in bicicletta. L’evento apre una profonda ferita nei genitori, e Kempton si rifugia sempre di più in un suo mondo immaginario dove scrive commedie che invia invano alle emittenti televisive. Così la sua parabola diventa quella di un cittadino fin troppo esemplare, non rassegnato a vedere che le persone siano o si sentano isolate. Un uomo comune sempre dalla parte dei fragili, dei più vulnerabili, un eterno ottimista, pronto a mettere qualche bastone tra le ruote dell’autorità costituita.

Diretto con scioltezza da Roger Michell (è suo Notting Hill, 1999), a rendere efficace e convincente il ritratto di questo uomo “indifeso”, è stato scelto un attore come Jim Broadbent, tra i più seri e rigorosi della scena cineteatrale inglese contemporanea. A suo agio nei ruoli brillanti come in quelli drammatici, Broadbent ha restituito al meglio le sottili sfumature del personaggio, tra speranza, senso di impotenza, sapore di utopia. Accanto a lui, nel ruolo della moglie c’è Helen Mirren, attrice inglese di primissimo piano, una Dorothy provata dalla vita ma ancora in grado di reagire alle avversità. Film di fronte al quale si sorride amaramente e insieme si riflette per la forte carica di positività che emana.

8 marzo 2022