Il racconto intimo di Comencini

Ne “Il tempo che ci vuole”, lo sguardo sul rapporto di Francesca con un genitore come Luigi, nella Roma degli anni ’70, mentre è al lavoro su “Le avventure di Pinocchio”, per la Rai, dal romanzo di Collodi

Luigi Comencini è un nome importante nel cinema italiano del secondo dopoguerra. Nato a Salò nel 1916, ha diretto lungo una carriera arrivata fino al 2007 una cinquantina di lungometraggi: titoli storici quali Pane, amore e fantasia, 1953; Pane, amore e gelosia, 1954; Tutti a casa, 1963; La ragazza di Bube, 1964. Dal matrimonio con Giulia Grifeo sono nate quattro figlie: Cristina e Francesca registe; Paola, scenografa; ed Eleonora, direttore di produzione. Francesca a sua volta ha diretto film quali Mi piace lavorare – Mobbing, 2004; Lo spazio bianco, 2007; Amori che non sanno stare al mondo, 2014; Django, la serie Sky 2023. In linea con la professione del padre, ne ha seguito il più possibile lezioni e insegnamenti.

Quando ha deciso di girare Il tempo che ci vuole, suo nuovo film in sala dal 26 settembre, la Comencini ha dovuto necessariamente scegliere un punto di partenza dal quale osservare il suo rapporto con l’illustre genitore. Il racconto prende dunque il via nella Roma degli anni ’70. Luigi Comencini è al lavoro su un importante progetto Rai, Le avventure di Pinocchio, dal romanzo di Carlo Collodi, tra i primi a segnalarsi nel rapporto cinema/televisione.

È un lavoro che richiede modalità e tempistiche diverse dal cinema. Ci vogliono forme di racconto nuove e inedite e il rapporto padre/figlia non sempre fila tranquillo. A fasi leggere e gioiose succedono altre in cui si fanno più aspri gli scontri tra un padre in apprensione e una figlia che avverte l’eco del clima di ribellione politica che attraversa l’Italia di quel periodo. Schermo e realtà si confondono.

Alla Mostra di Venezia, dove il film è stato presentato fuori concorso, nella conferenza stampa finale, la Comencini ha avuto parole che hanno stemperato un po’ gli attriti: «Dopo tanti anni passati a fare il suo stesso lavoro – ha detto – cercando di essere diversa da lui, ho voluto raccontare quanto ogni cosa che sono la devo a lui: ho voluto rendere omaggio a mio padre, al suo modo di fare cinema, al suo modo di essere».

Ne esce un racconto quanto mai intimo e concentrato sulle due voci (la presenza delle sorelle resta marginale) intorno alle quali si dipana il nastro dei ricordi familiari e professionali. Perché in fondo a questi contrasti, la scelta di diventare una regista è un merito del padre. È stato grazie alle battaglie condotte al suo fianco che Francesca è diventata una donna solida e risolta, ha vinto la lotta contro dipendenze e fragilità. Con il suo coraggio nell’aprire il proprio album di ricordi, l’incerta regista degli esordi ha potuto riscattarsi, uscendo da anni difficili nei quali l’aveva costretta il richiamo di provocatorie sirene politico- sociali. Attori di forte intensità: Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, i due protagonisti. Il finale è segnato da dolcezza e timida poesia: grazie al lavoro delle cineteche, il cinema non smette mai di parlarci.

15 ottobre 2024