“Il prezzo”, la forza espressiva di Arthur Miller

Nel testo teatrale pubblicato per la prima volta da Einaudi la storia di due fratelli alle prese con la vendita dei beni di famiglia. Il debutto nel 1968

Nel testo teatrale pubblicato per la prima volta da Einaudi la storia di due fratelli alle prese con la vendita dei beni di famiglia. Il debutto nel 1968

I drammi di Arthur Miller (1915-2005) sono stati recitati in ogni parte del mondo, come se indicassero la cattiva coscienza dell’uomo occidentale, alle prese con le falsità e le ipocrisie presenti nella nuova civiltà democratica nata negli Stati Uniti alla fine del diciottesimo secolo. Eppure “Il prezzo”, pièce che debuttò a Broadway nel 1968, ripresa l’anno successivo anche in Italia in uno spettacolo con Raf Vallone e Mario Scaccia, finora non era mai stato edito in volume, cosicché la traduzione di Masolino D’Amico, pubblicata da Einaudi (pp. 91, 12 euro), in concomitanza con l’ultima messa in scena che vede insieme Massimo Popolizio e Umberto Orsini, costituisce per noi lettori italiani una novità assoluta. In questo testo teatrale ritroviamo, con una notevole icasticità rappresentativa, la forza espressiva dei capolavori milleriani: da “Erano tutti miei figli” (1947), nel quale cade la maschera della buona famiglia, a “Morte di un commesso viaggiatore” (1949), che svela il mito ingannevole del successo; dal “Crogiuolo” (1953), sullo sfondo della cosiddetta caccia anticomunista scatenata dal senatore McCarthy, fino a “Uno sguardo dal ponte” (1955), in cui si rievoca il tempo oscuro degli immigrati italiani in America, per citare soltanto alcuni fra gli snodi più significativi.

Il tema de “Il prezzo” è in fondo sempre il medesimo: due fratelli, che non si parlano da ben sedici anni, cioè dalla morte del padre, ex antiquario, si ritrovano nella vecchia casa di New York in cui sono cresciuti, alle prese con la vendita, non più differibile, dei mobili di famiglia. Il sospirato confronto, al quale attivamente partecipano la moglie del secondogenito e il commerciante chiamato a fare la stima dei beni mobili, si trasforma presto in una spietata resa dei conti. Le incomprensioni del passato, i nodi irrisolti, le ferite non sanate, tornano a galla sotto gli occhi del vecchio perito, quasi novantenne, il quale non tarda ad assumere il ruolo dell’antico proprietario, come lui incapace di sedare gli animi tesi dei figli scatenati uno contro l’altro. Quello che avrebbe dovuto essere un semplice inventario diventa una tragedia che trascina nel gorgo tutti, nessuno escluso.

In ogni scrittore esiste una scena primaria che si ripete nel tempo sotto forme diverse. L’amarezza inconsolabile di Arthur Miller pare già fissata, una volta per sempre, nella pagina iniziale di “Focus”, il grande romanzo autobiografico dell’esordio, pubblicato al termine della seconda guerra mondiale, nel quale il protagonista sogna di essere in un parco dei divertimenti sulla spiaggia oceanica – chiara allusione al luna park di Coney Island – dove la giostra si muove a vuoto senza passeggeri, avanti e indietro, all’infinito. Quando lui si avvicina per capire cosa stia succedendo, comprende che sotto terra è in funzione una macchina gigantesca, una specie di stabilimento: «Mentre cercava di immaginare di che cosa potesse trattarsi, si sentì invadere dalla paura».

18 gennaio 2016