«Il nostro cuore è un orecchio che ascolta il dolore del mondo»

È grande il silenzio che avvolge il monastero San Giovanni Battista a Monte Mario, i rumori della città sembrano svanire: «Dio sa ascoltare»

«Bisogna avere il coraggio di andare nelle discoteche, nelle piazze a raccontare la bellezza di Dio». Non ha dubbi suor Ildefonsa Paluzzi, Abbadessa del monastero “San Giovanni Battista” sul colle Monte Mario, che aggiunge: «Ci piacerebbe accogliere queste persone per far conoscere loro la bellezza del silenzio e della preghiera davanti al Signore». Gli fanno eco le altre monache che raccontano quanto il silenzio possa aiutare l’uomo a tirar fuori le proprie risorse. «Nel silenzio si scoprono tesori nascosti e si capisce il proprio percorso di vita. Invece oggi vediamo le persone vagare e prendere quel che capita, senza scegliere dove andare», sottolineano le monache. Mentre parlano i rumori della città sembrano svanire. Un tempo quella zona era solo campagna, oggi è piena di case. «Questo terreno fu acquistato dalla Madre Ildegarde per sei milioni dal conte Robilant. Era la sua casa di campagna. Siamo nel 1945 e la Madre aveva in tasca solo «cinquantamila lire. Una scommessa vinta grazie al lavoro delle monache».

Un grande silenzio avvolge il monastero, un’aspirante cinese raccoglie fiori da mettere in cappella. In tutto sono tredici monache provenienti da Polonia, Niger, Kenya e Italia. La sveglia suona presto, alle 4.50. «Qualche sorella si alza anche prima», commentano le monache. Di cosa ha bisogno il mondo? «Di ascolto. Il nostro cuore dovrebbe essere come un grande orecchio, spiega la Madre. «Dio sa ascoltare». In monastero si organizzano ritiri e la terza domenica del mese, dopo la Messa delle 10, ci sono incontri sul Vangelo o la Bibbia. Una monaca di 36 anni ci racconta: «Quando parlo con i giovani la cosa che li incuriosisce di più della mia scelta è il “sì” definitivo. Questo amore unico ed esclusivo. Oggi è molto difficile dire “per sempre”».

Il monastero è un orecchio per ascoltare il dolore del mondo: «Molte persone vanno dai maghi, molti sono giovani, cercano risposte facili e si perdono. Riceviamo molte telefonate o confidenze di persone che ci chiedono di aiutarle a pregare per liberarsi da questa catena di Male. Si va dal mago in un momento difficile e poi si entra in un buco nero. Abbiamo una persona che aiutiamo con le preghiere da 40 anni», spiega la madre Paluzzi. Ma il monastero non ha una casa solo a Roma, ne ha aperta una in Niger, ora diventata autonoma, e un’altra in Kenya nel 2009. «Siamo partite con una valigia pienissima, ci siamo portate anche la piastra per le ostie. Abbiamo cominciato così». Ora il Monastero produce statue, candele, ceri colorati e organizza giornate di ritiro. Ci vivono 13 monache, la più giovane ha 22 anni, la più grande 45 anni. «Le chiese sono piene durante la Messe, c’è sempre il coro e i bambini che ballano». La Madre ci mostra le foto. Il Monastero è immerso nel verde, ai bordi delle strade venditori ambulanti e chi raccoglie thè o caffè.

«Non c’è sicurezza, ci sono molte bande. Facciamo ritiri, le persone si portano i materassi per dormire per terra perché non abbiamo lo spazio sufficiente. Sono tutti del luogo». Il Kenya è un territorio ferito soprattutto da alcolismo, carenza di lavoro e malattie. «La povertà è tanta, le persone vivono per strade infangate, le malattie deturpano, i ragazzi si ubriacano e sono abbandonati a se stessi». Ferite simili a quelle del nostro Paese vinto dalla solitudine e da un lungo inverno. «I ragazzi ci chiedono verità. Sono soffocati dalla menzogna e dalla finta gentilezza», dice una giovane monaca. «Sono immersi in un rumore assordante che disconnette da sé stessi».

Le vostre vocazioni come sono nate? «Ascoltare le testimonianze delle suore mi ha aiutato a capire la mia strada», dice una monaca polacca. Mentre per un’altra monaca romana, del Tuscolano, la vocazione è nata proprio in quel monastero mentre si preparava alla Cresima. «La vita delle monache mi colpiva, anche se non parlavano, vederle mi dava una grande testimonianza. Lavoravano tantissimo in silenzio e noi ragazzine le aiutavano. Era il 1974 ed erano tante. Poi, in chiesa, sentirle cantare a tre o quattro voci era un’esperienza molto forte. La mia fermezza sarebbe niente se non ci fosse Dio e sono 30 anni. Io tutte le sere quando vado a letto dico il mio “sì” e riscopro la bellezza del Signore. Se Dio è fedele anch’io devo esserlo».

 

17 dicembre 2018