Il Nobel Coetzee e Kurtz in dialogo su finzione e verità

Un libro a quattro mani dedicato allo statuto della narrazione, in chiave letteraria e analitica. La necessità di ricucire gli strappi dell’esistenza

Un libro a quattro mani dedicato allo statuto della narrazione, in chiave letteraria e analitica. La necessità di ricucire gli strappi dell’esistenza

Uno dei più grandi scrittori dei nostri tempi dialoga con una psicoterapeuta d’eccezione a proposito dei rapporti che possono intercorrere tra finzione e verità, nell’ottica di chi vuole comprendere lo statuto della narrazione, seguendo una doppia chiave: letteraria e analitica. Ne deriva un libro difficilmente incasellabile e, in tal senso, davvero prezioso: quello composto a quattro mani da J. M. Coetzee e Arabella Kurtz, intitolato La buona storia. Conversazioni su verità, finzione e psicoterapia (Einaudi, tradizione di Maria Baiocchi e Paola Splendore, pp.135, 19 euro).

Lo scrittore, premio Nobel per la Letteratura nel 2003, chiede alla psicanalista se le sue invenzioni romanzesche possono farlo ammalare. Al contrario, lei vorrebbe sapere se sono state in grado di farlo guarire. Coetzee ammette che se una bugia ti facesse star meglio, forse andrebbe accettata. Kurtz appare meno convinta: la sua esperienza le dice che ogni menzogna, prima o poi, verrà smascherata e ci chiederà il conto. Entrambi concordano sul fatto che la memoria è governata dall’uomo, per questo è malleabile. L’immagine che elaboriamo di noi stessi non sempre corrisponde alla realtà, ma nasce dall’esigenza di trovare una ragione per vivere. Nonostante tutti gli sforzi, non saremo mai liberi di edificare il passato a nostro uso e consumo, anche perché dovremo comunque legare il benessere personale alla moralità sociale, visto che siamo fatti non solo dei desideri individuali, ma anche delle relazioni trascorse e presenti. Per questo è fondamentale trovare persone in grado di apprezzarci, insieme a coloro che sono capaci di smontare gli alibi interiori che ci siamo costruiti.

Nella seconda parte del lungo e intenso dialogo i due studiosi riflettono sull’importanza dei gruppi umani e sulle dinamiche da cui sono attraversati: esercito, bande giovanili, corpi aziendali. Decisivo, per chi li gestisce, dovrebbe essere l’intuizione di uno «spazio mentale» di cui i membri dell’associazione o del partito dovrebbero sentirsi parte. Di notevole interesse gli spunti sulla classe scolastica e sui rapporti che di norma scattano fra insegnanti e allievi coi rischi conseguenti per tutt’e due: il primo non dovrebbe limitarsi, sostiene Coetzee – che ha una lunga esperienza di docente universitario – a esprimere il giudizio didattico come se fosse un verdetto, né semplicemente adattarsi al ruolo di simulatore («Se mi segui, ti guiderò, ti educherò»); il secondo è chiamato a guardarsi da una pedissequa imitazione del maestro («All’insegnante bisogna resistere e poi seguirlo, poi superarlo, e dimenticarlo»).

Il volume si chiude con un’analisi del grande romanzo di A. S. Sebald, Austerlitz, il cui nocciolo tematico, la storia di un bambino abbandonato dai genitori al tempo della seconda guerra mondiale, al quale verrà dato un nome non suo, riporta Coetzee e Kurtz alla necessità ineludibile di ricucire gli strappi della nostra esistenza nella convinzione che altrimenti il cosiddetto rimosso tornerà ad ossessionarci. Su questo punto alla fine i due interlocutori convergono: «Il genere romanzo sembra avere un interesse intrinseco nell’affermare che le cose non sono come sembrano, che le nostre vite apparenti non sono le nostre vite reali. E la psicanalisi ha un interesse analogo».

29 maggio 2017