Il Nobel a Dylan, letteratura è sguardo potente sulla realtà

Un omaggio al cantore della bellezza, capace di intercettare le domande di senso dell’uomo e di raccontare storie in musica con la forza della poesia

Un omaggio al cantore della bellezza, capace di intercettare le domande di senso dell’uomo e di raccontare storie in musica con la forza della poesia

Molti hanno storto il naso quando hanno letto o sentito l’annuncio. A Bob Dylan, cantautore, il Nobel per la letteratura. Sembra un oltraggio, un’invasione di campo, una concessione eccessiva a un genere che non meriterebbe – a loro avviso – uno scranno così alto. I puristi del termine inorridiscono, ironizzano, quasi a voler replicare quel “Sono solo canzonette” che il Bennato del 1980 aveva lanciato provocatoriamente e con ironia mal compresa.

Eppure non sono solo canzonette, appunto, tanto che gli Accademici di Svezia hanno preso sul serio parole e musica di Bob Dylan, e assegnato il Nobel a uno degli interpreti più straordinari degli ultimi cinquant’anni. «Ha creato nuove espressioni poetiche all’interno della tradizione della canzone americana» è la motivazione con cui è stato accompagnato il premio. Essenziale fino all’estremo, con il rischio di dar ragione a chi storce il naso e risponde a suon di battute definendo gli Accademici “un vecchio consesso di hippies nostalgici”.

Ma se si va più a fondo per scoprire cosa c’è dietro e dentro quelle parole e quella musica, si potrebbe capire che la scelta di quel Nobel non è fuori tiro. Anzi, tutt’al più, potrebbe essere arrivata in ritardo. Ciò che conta è la sostanza. Ovvero, la capacità di intercettare le domande di senso dell’uomo che Dylan ha avuto. Come è fondamentale che faccia la buona letteratura.

Se ha la capacità di entrare nelle pieghe dell’inquietudine umana, di mettere in luce le ferite e le fragilità senza retorica, in una parola di saper leggere la realtà e di dar voce alle aspirazioni più profonde degli uomini e delle donne del proprio tempo, allora anche la musica – perfino quella rock, che qualcuno etichetta come la “musica del diavolo” – è in grado di offrire uno squarcio che illumina l’esistenza. E, se unita a una voce, a un ritmo, a una storia come quella di Dylan, allora forse non ci si può arroccare sulla difesa di uno schema in cui ingabbiare un Premio.

Dylan è riuscito in questo, attraversando tanti generi musicali, in una continua ricerca di se stesso, con un percorso di vita tortuoso e ricco di contraddizioni, in cui il suo bagaglio letterario – da Rimbaud ai poeti della “beat generation”, dalle radici ebree al grande influsso della Bibbia – si riflette con evidenza sui suoi testi, che da ieri hanno il più importante riconoscimento per la letteratura insieme alla sua voce e alla musica che li accompagna.

Del resto, la letteratura e la vita, ebbe a dire un critico come Carlo Bo, sono «mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi». Su questa strada, costringendoci a metterci in gioco ogni volta che lo si ascolta, Dylan ci accompagna fin dall’inizio della sua, di strada, fin da quando, da ragazzo poco più che ventenne originario del Minnesota, tirava fuori dal suo sacco perle come The times they are a-changin’ o Blowin’ in the wind (che nel 1997 cantò a Bologna davanti a Giovanni Paolo II), dove emergono con forza proprio quelle domande di senso di cui parlavamo.

E non possono avere forse dignità di letteratura – e cos’altro potrebbero essere – i versi di “Hurricane”? Il brano dedicato nel 1976 a Rubin “Hurricane” Carter, pugile afroamericano ingiustamente condannato per un triplice omicidio del 1966 e che uscirà di prigione solo vent’anni dopo, completamente scagionato. Con un incipit fulminante: “Colpi di pistola risuonano nel bar notturno / Entra Patty Valentine dal ballatoio superiore”.

Qui c’è l’elemento della storia,  chiave potente di un rock che ha avuto e ha altri interpreti capaci di raccontarla in modo efficace, nel mettere a nudo il fallimento del “sogno” americano, come Bruce Springsteen, solo per fare un nome. La storia, il racconto come misura di quell’attesa inesauribile che ci accompagna tutta la vita verso qualcosa di grande che è la nostra salvezza, come Dylan canta in I shall be released: “Da un giorno all’altro adesso sarò liberato”. Con la consapevolezza che “c’è bellezza nel fiume d’argento che canta/c’è bellezza nel sole che sorge in cielo/ma nulla di questo e null’altro può toccare la bellezza che ricordo negli occhi del mio vero amore” (Tomorrow’s a long time).

Cantare questa bellezza, allora, è immettere la forza della poesia nella musica e trasformarla in un “unicum”, un’opera originale in cui chi ascolta è capace di immergervi la propria storia, fatta di ferite lancinanti e di bellezza spesso nascosta. Al cantore di questa bellezza va il Nobel, forse come un Oscar alla carriera, e ne siamo lieti. Lo sarebbe stata anche Fernanda Pivano, che una volta disse: «Dylan aiutò Allen Ginsberg a togliere la poesia dalle Accademie e, come un Omero del ventesimo secolo, la restituì alle masse con l’aiuto del juke box».

14 ottobre 2016