Il magico incantamento di Baldini

Ristampata da Einaudi la raccolta uscita nel ’95 “Ad nòta”. Una desolazione amara, inquieta e ribelle, che però rientra sempre entro i limiti di una franca accettazione

Fra i grandi poeti dialettali italiani del Novecento, Raffaello Baldini (Sant’Arcangelo di Romagna, 1924 – Milano, 2005) recita un ruolo di primo piano. Esordì tardi, quando aveva già 53 anni, con un volume pubblicato a proprie spese, E’ solitéri (poi riproposto come prima parte di La nàiva (1982), ma subito conquistò l’attenzione di critici importanti, da Dante Isella a Pier Vincenzo Mengaldo fino a Franco Brevini, i quali collocarono il suo nome nei registri aurei della nostra letteratura.

Egli, che all’inizio condivise i sogni e gli umori di un gruppo di amici e conterranei come Tonino Guerra e Nino Pedretti, in realtà era molto diverso da loro, quasi avesse sempre avuto qualcosa di checoviano, infatti quando glielo facevano notare sorrideva compiaciuto: lo scacco della mancata occasione, il sentimento della vita incompiuta, persino il ghigno dello scatto ironico di chi a un certo punto, di fronte al tedio, vuole mandare le carte all’aria: da Furistìr, del 1988, i versi d’esordio: «E pu basta, a m so stoff, / l’è tott i dè cumpàgn, u n s nu n pò piò. / A m vì fé crèss i bafi!» («E poi basta, mi sono stufato, / è tutti i giorni uguale, non se ne può più. / Mi voglio far crescere i baffi!»).

Tuttavia il carattere espressivo che più lo contraddistingue emerge in una desolazione amara, inquieta e ribelle, lucidamente controllata, che sembra sul punto di esplodere, ma poi, soprattutto nei finali, rientra sempre entro i limiti di una franca accettazione: lì scattano i capolavori, da Cuntantès (Contentarsi), dove sembrano rispuntare certi supremi abbandoni belliani, ai monologhi carichi di tensione sui morti che sanno tutto e non dicono niente, come quello famoso compreso in Ad nòta, la raccolta uscita nel 1995 presso Mondadori ora ristampata da Einaudi. Dalla quale citiamo L’éultum sedéili ( L’ultima panchina). Otto versi di magico incantamento che possono essere apprezzati anche nella traduzione, in cui il poeta riesce a far convivere la freschezza dell’adolescenza appena sbocciata con l’assorta malinconia della vita che sfiorisce: «I avrà vu quatòrg an, / lèu quatòrg, li dògg, trègg, me vièl dla Fòsa, / disdài sl’éultum sedèili, i n m’a sintèi, / vèrs sàira, pin ‘d gazòtt pr’aria, un malàn, / i stèva alè, i s guardèva, / da zètt, senza tuchès, / i s guardèva, i s guardèva, cmè incantèd, / e mè pianìn, sl’erba, a so tòur’ n indrì» («Avranno avuto quattordici anni, / lui quattordici, lei dodici, tredici, al viale della Fossa, / seduti sull’ultima panchina, non m’hanno sentito, / verso sera, pieno d’uccelli per aria, un chiasso, / stavano lì, si guardavano, / in silenzio, senza toccarsi, / si guardavano, si guardavano, come incantati, / e io pian piano, sull’erba, sono tornato indietro»). In fondo è lo stesso anziano che sempre di notte prega, «mo a n’è so gnénch’ s’a i cràid o s’a n’i cràid » («ma non so nemmeno se ci credo o non ci credo»).

13 settembre 2021