Il limite della vita e l’esigenza di «evangelizzare la morte»

Il cappellano dell’hospice Villa Speranza don Abbate racconta il bisogno dei malati terminali di essere accompagnati. Sul caso Lambert: «Nessuno chiede di morire»

Il grido di dolore di Gesù sulla croce, «espressione della sua natura umana», racchiude in sé «la domanda di tutte le domande di senso che l’approssimarsi al termine della vita pone». Per don Carlo Abbate, assistente spirituale dell’hospice “Villa Speranza” di via della Pineta Sacchetti, il malato che si trova ad affrontare l’ultima parte della sua esistenza esprime infatti più di tutto il «bisogno di essere accompagnato e di non sentirsi abbandonato». Il sacerdote, che da 14 anni presta servizio nella struttura per malati terminali nata nel 1999 dalla collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, il Policlinico Agostino Gemelli e l’Azienda sanitaria locale Roma 1, evidenzia quanto sia «importante la presa in carico in primo luogo della persona giudicata inguaribile, che è altro dalla patologia», guardando quindi alle cure palliative primariamente nella loro valenza etimologica: far sentire i pazienti “avvolti”, come i pellegrini antichi che si cingevano del pallium, trovando appunto nel proprio mantello calore e rifugio.

Proprio nei giorni scorsi nella sede della Cei ha avuto luogo un Tavolo – che per iniziativa dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute riunisce i 22 hospice cattolici presenti in Italia – al lavoro sulla bozza di un documento che intende definire sempre meglio l’identikit dell’hospice cattolico quale luogo che apre alla speranza; a dire che prendersi cura del malato che soffre e sa di non poter guarire vuol dire farsi carico di tutta la persona, custodendone e accompagnandone la vita, nella sua sacralità e inviolabilità, fino al suo compimento naturale. «Accompagnare questo delicato percorso finale della vita – dice infatti don Abbate – significa accompagnare una fase di fragilità e per questo sono necessari rispetto e sensibilità speciali». Oltre che un lavoro di equipe tra medici, psicologo, assistente spirituale e volontari, in cui «gli apporti di specificità assistenziali si integrano» per poter «sostenere tutte e quattro le dimensioni umane che si trovano a vacillare nella persona: fisiologica, psicologica, spirituale e sociale».

Inevitabilmente, a dominare nel malato terminale è la paura ma «più che della morte – continua il sacerdote -, c’è la paura di soffrire, che va controllata a 360 gradi, guardando alla totalità della persona»: nel fisico, nella mente e nello spirito, «altrimenti il rischio è quello di abbandonarsi alla disperazione». Anche se «facciamo finta che non ci sia e lo respingiamo – spiega l’assistente spirituale -, il limite della vita c’è e la morte è il destino di tutti»; per questo «va evangelizzata, perché anche quando l’umana paura, sperimentata pure da Cristo nel Getsemani, permane, è la vita come dono, di cui noi non disponiamo, che va riconosciuta». Guardando alla vicenda del tetraplegico francese Vincent Lambert – per il quale nell’ospedale di Reims riprende in questi giorni, dopo un mese e mezzo di interruzione, il protocollo che prevede la sedazione profonda e la sospensione di idratazione e nutrizione «nonostante non sia in terapia intensiva o subintensiva, né in stadio terminale di malattia» -, don Abbate sottolinea che in questi anni di servizio come assistente spirituale in un hospice «non ho mai incontrato nessun paziente che abbia chiesto di morire, e se qualche grido di dolore in tal senso c’è stato, è stato poi riformulato quale espressione di un bisogno di sentirsi riconosciuto, come richiesta di attenzione maggiore».

Così come è esplicito in chi si appresta a morire il «bisogno di rassicurazione», sia a livello medico che umano, «è allora importante “dare la mano” e “so-stare” nel senso di saper stare accanto, esserci, stringendosi intorno alla persona e al suo nucleo familiare». Anche la famiglia del paziente infatti «alla notizia di una prognosi infausta subisce uno sconvolgimento totale»; si tratta quindi «in primo luogo di rispettare le normali e naturali resistenze dei parenti più stretti, per poi sostenerli». Talvolta si tratta anche di «sostituirsi a loro quando il paziente si ritrovi solo per i mille casi della vita o sia un senza tetto o un senza fissa dimora: ciò che conta è che nessuno si senta abbandonato mentre oggi predomina la cultura dello scarto di cui parla Papa Francesco».

Sul piano spirituale, don Abbate parla di «necessità di fare attenzione ai bisogni che la persona esprime sia direttamente che indirettamente», andando ad «alimentare i valori e la fede anche quando c’è ma ancora non è espressa pienamente, perché il tempo non è mai un fattore discriminante in questo senso». Il tempo della malattia terminale porta infatti «tutti a ricercare qualcosa che va oltre la nostra umanità», aprendo «a quegli interrogativi profondi rispetto ai quali viene chiesta una rassicurazione»; se «non è sempre facile, né giusto e necessario, avere e dare risposte», va invece «sempre sostenuta la speranza», che passa anche «dall’ascolto dei racconti di vita, offrendo una rilettura della propria storia per alleggerirla di certi pesi, illuminandola di una prospettiva nuova che doni serenità». Forte è infatti «il bisogno di riconciliarsi con se stessi» apprestandosi quindi al sacramento della riconciliazione e dell’estrema unzione, laddove, nella consapevolezza della morte imminente, «il problema non è morire ma come morire», evidenzia ancora il sacerdote. In particolare, «è fondamentale per il paziente con una malattia allo stadio terminale, essere accompagnato dalle persone che ha amato e con cui ha condivisola vita, essendo nella pace e nel perdono con tutte loro».

4 luglio 2019