«Il labirinto del silenzio» sul dopo-Auschwitz

Il film ha il merito di muoversi tra dramma, thriller, suspence, restituendo un quadro credibile della Germania fine anni ’50

Dal 14 gennaio nelle sale. Il film ha il merito di muoversi tra dramma, thriller, suspence, restituendo un quadro credibile della Germania fine anni ’50

Col passare degli anni molti dimenticano che è esistita una Germania divisa in due: quella Occidentale, legata all’Europa democratica, e quella Orientale, chiusa nel blocco sovietico. Si tratta di uno status politico-geografico che è andato avanti fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino. Fino a quel momento però ci sono state poche occasioni per entrare decisamente nei fatti accaduti nella nazione tedesca nel periodo tra 1948 e 1988. Anche il cinema è rimasto in modo un po’ sospetto ai margini della Storia.

Così va accolto con soddisfazione Il labirinto del silenzio, film di produzione tedesca in uscita dal 14 gennaio nelle sale. La storia prende il via nel 1958. Mentre nel resto del mondo la cosiddetta guerra fredda tra i due blocchi dominanti (Stati Uniti e Unione Sovietica) vive momenti difficili, nella Germania Occidentale domina un euforico entusiasmo. In questo scenario tendente all’ottimismo, Johann Radmann, da poco nominato pubblico ministero, ascolta la confessione di un giornalista che avrebbe riconosciuto in un insegnante una ex guardia di Auschwitz.

La possibilità di perseguirlo legalmente resta senza seguito e allora Radmann decide di proseguire la ricerca da solo. Aprendo un capitolo di storia inedito e sconvolgente noto come «i processi di Auschwitz». I fatti sono dunque tutti autentici, e passano oltre cinque anni dai primi procedimenti preliminari fino all’apertura vera e propria della causa contro i reduci dai campi di sterminio. Lascia in effetti increduli che quegli episodi siano rimasti ignoti alla maggioranza dei tedeschi.

Si trattava di far prendere atto a chi non ne aveva conoscenza che tantissimi uomini, anche cittadini semplici, vivevano in città e in campagna una vita ordinata e tranquilla dopo aver servito il nazismo a vari livelli di responsabilità. Nel 1958 la Germania Ovest è in un momento sociale di grande sviluppo, guarda alla forte voglia di ricostruire e nessuno intende frapporre nuovi ostacoli alla crescita del Paese. Dei crimini commessi ad Auschwitz non si vuole sentire parlare e il lavoro di Radmann va avanti tra molte diffidenze. Quello che si rivela è invece un labirinto di bugie e di sensi di colpa, di presa d’atto che è impossibile chiamarsi fuori da una tragedia come l’Olocausto.

Partendo da fatti veri, il film ha il merito di muoversi tra dramma, thriller, suspence, restituendo un quadro aderente e credibile della Germania fine anni ’50. Con la particolarità, da sottolineare, che a dirigere una storia così spiccatamente nazionale c’è in regia l’italiano Giulio Ricciarelli, nato a Milano nel 1965, tedesco per formazione e esperienze professionali tra cinema e teatro.

 

11 gennaio 2016