L’amore si vede più dai fatti che dalle parole

Molti di noi muoveranno i loro passi verso la porta della Misericordia. Sia il nostro anche un ritorno del cuore al tempo in cui siamo stati visitati

Molti di noi muoveranno i loro passi verso la porta della Misericordia. Sia il nostro anche un ritorno del cuore al tempo in cui siamo stati visitati

«L’amore ha a che fare più con i fatti che con le parole» (Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 230). Di questa espressione chi ama e chi è amato non può che riconoscerne l’evidenza ma se la rapportiamo a Dio? Quali fatti i credenti possono raccontare per tratteggiare l’amore di Dio non tanto in astratto – giacché l’amore non esiste fuori dal concreto – ma a partire dai fatti della propria storia? L’apertura ormai prossima del Giubileo della Misericordia mette al centro dell’attenzione dei credenti, e invita tutti a varcare, una soglia, attraversare una porta «dove chiunque entrerà potrà sperimentare l’amore di Dio che consola, che perdona e dona speranza» (Francesco, Misericordiae Vultus, 3). «È proprio di Dio usare misericordia e specialmente in questo si manifesta la sua onnipotenza» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 30, a.4) e «misericordia è la parola che il mistero della Santissima Trinità che si è rivelata in Gesù, volto della misericordia del Padre» (MV 1).

L’amore si misura più con i fatti che con le parole. Di Gesù lo possiamo dire con certezza. Il Vangelo ci riporta il contenuto della sua predicazione ma ci racconta anche di molti fatti e differenti episodi nei quali ha dato da mangiare agli affamati (Gv 6,11) e da bere agli assetati (Gv 4,15), ha guarito i malati (Mc 3,10) perdonato i peccatori (Mt 9,2). Papa Francesco ci invita a una carità operosa, unico aspetto sul quale saremo giudicati al termine della nostra vita su questa terra (Mt 25) e propone a tutta la Chiesa un esame di coscienza a partire dalle opere di misericordia corporali e spirituali attraverso le quali «possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli» (MV 15).

Non si tratta, tuttavia, soltanto di cose da fare. «Il primo compito della vita consacrata – insegna Giovanni Paolo II – è di rendere visibili le meraviglie che Dio opera nella fragile umanità delle persone chiamate» (Giovanni Paolo II, Vita Consecrata, 20). Il cuore di Dio si volge dalla parte del povero, del misero, del bisognoso, dello sventurato, del meschino, si volge dalla parte di quella umanità fragile di cui anche noi facciamo parte, nella direzione della carne degli uomini che con l’Incarnazione del Figlio è entrata a far parte della sua vita e che conosce bene, «sa di che cosa siamo plasmati» (Sal 103,14). Ed è proprio di questa opera che noi siamo chiamati a raccontare, siamo invitati a fare memoria di quello che Dio ha compiuto nella nostra umanità fragile, al tempo in cui avevamo fame ed egli ci ha dato da mangiare, avevamo sete di vita ed egli ci ha dato da bere, eravamo nudi e malati – a causa del nostro peccato – ed egli ci ha visitato e rivestito, eravamo in carcere, avvolti nelle tenebre del dubbio, nell’ignoranza del suo volto ed egli ce lo ha mostrato; eravamo afflitti ed egli ci ha consolato, siamo stati noiosi e molesti ed egli ha avuto pazienza con noi. Quando? In quali occasioni della vita, attraverso quali persone, quanti fratelli e sorelle, in che modo la Trinità ha avuto misericordia di noi?

Molti di noi muoveranno i loro passi verso la porta della Misericordia, chi di noi non può uscire di casa – forse perché in monastero – muoverà i passi del cuore. Sia il nostro anche un pellegrinaggio della memoria, un ritorno del cuore al tempo in cui siamo stati visitati (Lc 19,44) perché possiamo a nostra volta consolare con la consolazione con la quale siamo stati consolati (2Cor 1,4) amare con l’amore con il quale siamo stati amati (Gv 13,34).

E sarà canto, per tutti: «Grida di giubilo e di vittoria, la destra del Signore ha fatto meraviglie» (Sal 118,15).

12 novembre 2015