“Il figlio di Saul”, storia di un padre ad Auschwitz

Nell’opera prima di Laszlo Nemes la scelta di raccontare l’«impossibile» alzando lo sguardo ad altezza di pietà e compassione

Nell’opera prima di Laszlo Nemes la scelta di raccontare l’«impossibile» in un formato ridotto, alzando lo sguardo ad altezza di pietà e compassione

«La sfida principale che ho dovuto affrontare come attore è stato l’impegno a colmare la differenza tra la mia vita di oggi e quella che il mio personaggio interpreta nel film». È quanto afferma Gèza Rohrig, l’attore cui è affidato il ruolo di Saul Auslander nel film “Il figlio di Saul”, una produzione ungherese, opera prima di Laszlo Nemes, ambientata negli anni cupi della repressione ebrea da parte nazista. Il film esce in questi giorni per celebrare la Giornata della memoria, occasione non retorica e opportuna per ricordare avvenimenti ogni volta più lontani  e allo stesso tempo necessari di un recupero di memoria per le giovani generazioni, spesso tenute ai margini della cronaca e della storia.

Saul Auslander fa parte dei Sonderkommando, i gruppi di ebrei costretti dai nazisti ad assisterli nello sterminio di altri prigionieri. Mentre lavora in uno dei forni crematori, scopre il cadavere di un ragazzo in cui crede di riconoscere il figlio. Tenta allora una impossibile impresa: individuare un rabbino cui affidare il compito di dire la preghiera e seppellire il corpo del ragazzo. Il film ha vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2015, il Golden Globe 2016 e il 28 febbraio prossimo è nella cinquina finale degli Oscar, categoria miglior film in lingua non inglese. Elogi unanimi perché è l’opera di un esordiente e perché il tema “Shoah” non è mai semplice da svolgere. Al contrario, su quei tragici avvenimenti svoltisi tra Auschwitz e altri campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale incombe il rischio di non indovinare quasi mai l’approccio giusto, di essere o troppo leggeri o troppo pesanti.

Per aggirare l’ostacolo, Nemes mette in campo due soluzioni: fa svolgere in un contesto di paura dove la ragione ha abdicato alla follia una storia «impossibile» di religione e di pietà. E rinuncia, al momento di avviare le riprese, alle immagini grandi e spettacolari per scegliere il formato ridotto. Una soluzione di stile finalizzata a cambiare la prospettiva di chi guarda, ossia a non allargare il cambio di prospettiva e a non entrare nell’orrore di quello che succedeva in quei luoghi. Così arriva la domanda a lungo attesa: Saul preferisce la sepoltura di un singolo ragazzo di fronte al massacro di tanti altri innocenti? Il quesito apre problemi morali profondi e forse insolubili. La regia pedina ogni angolo del campo, alzando lo sguardo ad altezza di pietà e compassione. Si tratta di un film che ripropone argomenti non nuovi ma sempre necessari per meditare e riflettere. E fa emergere alcune terribili verità, quali la voglia di sopravvivenza, insita nell’essere umano, e per la quale ogni individuo può commettere impensabili crudezze e nequizie.

25 gennaio 2016