Il Fair play Day ricorda l’Olimpiade di Roma ‘60
Atleti e tedofori al Coni per i 60 anni della manifestazione. Viola (Coni Lazio): «Fu un’avventura che rilanciò l’Italia e la città». Le testimonianze dei protagonisti
La sesta edizione del Fair play Day ha un titolo emblematico: il dovere compiuto. Si celebrano i 60 anni dall’Olimpiade estiva Roma ’60. Oggi, 1 dicembre, a 60 anni (+ 1 causa pandemia), il Salone d’onore del Coni ne accoglie atleti e tedofori, chi vide realizzare l’impresa come Sergio Garroni, figlio di Marcello che fu il segretario generale. Si salutano come se si fossero lasciati ieri. «Era doveroso verso chi partecipò 13 anni dopo la fine della II Guerra mondiale», spiega Ruggero Alcanterini, presidente del Comitato nazionale italiano Fair Play. «L’Olimpiade di Roma ’60 fu un’avventura che rilanciò l’Italia e Roma – sottolinea Riccardo Viola, presidente Coni Lazio -. Segnò la nascita dell’Olimpiade nell’era moderna con la tv che trasmise le gare. Lanciò lo sport in Italia. Nacquero i grandi impianti sportivi che abbiamo. Consolidò una valenza internazionale nata con l’Olimpiade invernale di Cortina ’56. I Giochi rappresentano anche la memoria: nel 1960 debuttarono le Paralimpiadi. Abbiamo presentato un documento per Roma come città inclusiva attraverso lo sport. Se avremo gli impianti su tutto il territorio cittadino sarà possibile candidarsi ogni 4 anni». Cos’è lo sport? «Valori che non moriranno mai. Un’isola felice per i giovani, per questo è importante a livello territoriale. Ora si faccia squadra contro il Covid-19».
Molti i cimeli della famiglia Garroni al Coni. Medaglie, annulli postali, pizze del film “La grande Olimpiade”. Sergio Garroni ricorda: «Ringrazio mio padre per l’educazione che mi ha trasmesso. Devo a lui quello che sono. In famiglia si respirava sport a prescindere dagli eventi. È scuola di vita, anche senza partecipare a un’Olimpiade». Sul palco salgono atleti e tedofori applauditi da tutti per la consegna del diploma commemorativo. Tra loro Abdon Pamich, Daniela Beneck, Salvatore Gionta, capitano della Nazionale di pallanuoto che vinse l’oro, in diretta da casa. Luciana Marcellini, la più giovane atleta di quell’Olimpiade, aveva 12 anni, indossa la divisa originale. Gareggiò nei 200 rana. Come si raggiungono questi traguardi? «Con il senso del dovere, me lo ha trasmesso mia madre – spiega Marcellini -. L’etica di vita non cambierà mai: significa competere con chi è meglio di te e fare lo stesso. Pratico canottaggio alla Canottieri Aniene, sono stata la prima socia donna». Cosa c’è di diverso ora nel mondo dello sport? «Noi ci siamo accostati allo sport per lo sport. Adesso è una professione, poi arriva lo sport come gioco». Come erano viste le atlete? «C’era più uguaglianza con gli uomini. Eravamo due universi diversi ma uguali: la differenza si fermava tra chi valeva di più e chi meno dal punto di vista sportivo». Il ricordo più bello? «Aver saputo quanto valgo».
Giancarlo Peris fu l’ultimo tedoforo, in una sacca tiene la torcia olimpica. Perché scelsero lei? «Il Comitato decise che sarebbe stato ultimo tedoforo il vincitore dei campionati studenteschi di corsa campestre quell’anno. Fui io. Sono sincero: non ci credevo. Poi arrivò la lettera». Elio Sìcari si affaccia sullo Stadio dei Marmi. Anche lui fu tedoforo. «Questa è casa nostra. Ho frequentato l’Ise e fatto parte della squadra di atletica leggera, nel 1962 sono stato Atleta dell’anno della regione Sicilia. Poi allenatore presso il Cus e di ginnastica artistica». Cosa le manca? «Il profumo dell’erba tagliata, la concentrazione e l’adrenalina prima della partenza, il colpo dello start, la sensazione alla fine della corsa, anche se non vincevo». Cosa le dava soddisfazione in quel caso? «Sapere che avevo dato il massimo». Poi tutti insieme sotto il tripode di Roma ’60 allo Stadio del Nuoto. Peris tiene alta la fiaccola. Il resto è storia.
1° dicembre 2021