Il “donabbondismo” e la fatica di prendere posizione davanti al male

Dalla lettura in classe de I promessi sposi, una riflessione sulle domande di questo tempo, che chiamano a definire il proprio equilibrio ma anche a scegliere tra guerra e pace, vita e morte

Nella mia classe I abbiamo iniziato la lettura de I promessi sposi. Dopo le domande sull’anonimo e il narratore, il volo planare sul lago a scendere, fino ad arrivare alle strade e alle stradette e poi, alzando lo sguardo, a scoprire un pezzo di cielo e qualche vetta di monte, ci siamo trovati finalmente di fronte al grande protagonista del romanzo, il curato che ha come ragione di vita quella di scansare i ciottoli che fanno da inciampo nel sentiero: don Abbondio. Abbiamo letto tutto il capitolo, il bivio, i bravi, la casa e Perpetua, abbiamo messo a letto il poveretto con l’autore, per niente invidiosi della penosa notte che gli sarebbe toccata e ci siamo messi a parlare di donabbondismo.

Di tante cose dette, e che poi le ragazze e i ragazzi mi avrebbero scritto in una traccia proprio sul donabbondismo proposta come verifica scritta, in molti hanno voluto commentare il riferimento che gli ho proposto a uno dei momenti in cui in Italia si parlò a lungo di donabbondismo. Il 28 aprile 1977 le Brigate rosse uccisero l’avvocato Fulvio Croce, una morte simbolica, oltre che per la foto straziante della moglie sul corpo del marito, per quanto seppe muovere nella coscienza collettiva. Le Brigate rosse avevano minacciato chiunque avesse preso parte al processo di Torino al primo nucleo Br. L’avvocato Croce, civilista, presidente dell’ordine, assunse l’onere delle nomine dopo due consecutive rinunce in massa degli avvocati d’ufficio. Per questo avrebbe pagato con la vita.

Il martedì successivo all’omicidio Croce, al momento della convocazione dei giudici popolari estratti a sorte, su 42 in 36 presentarono certificato medico. Il 5 maggio usciva sul «Corriere della Sera» un’intervista di Giulio Nascimbeni a Eugenio Montale, al quale veniva chiesto un parere sulla vicenda. Il nostro poeta più importante, il premio Nobel, rispose che anche lui, se estratto, con tutta probabilità avrebbe rifiutato l’incarico perché avrebbe avuto paura come gli altri. Furono dichiarazioni dirompenti, che suscitarono un dibattito infinito al quale parteciparono i nostri maggiori intellettuali, e nel quale Italo Calvino a un certo punto disse queste parole: «Ora sento come un pericolo il fatto che il nostro massimo poeta ci esorti a far nostra la morale di don Abbondio».

Quando ho chiesto un parere in classe su una vicenda per loro comunque lontana e ovviamente sconosciuta, le ragazze e i ragazzi si sono accalorati e hanno iniziato un dibattito, continuato poi sulle colonne dei loro testi scritti, che inizialmente mi ha entusiasmato, ma che poi, gradualmente, ho sentito interiormente mettermi a disagio, alla prova. Don Abbondio, il donabbondismo, la fatica di prendere una posizione netta difronte al male che irrompe nella storia particolare e in quella universale, la grande letteratura che anche in questo caso aveva fatto il suo lavoro: mettermi a nudo in tutta la mia incertezza, oppresso dalle domande gravose che ognuno di noi credo porti dentro in questo tempo di violenza, chiamati ognuno a definire il proprio fragile equilibrio, ma anche la propria posizione, tra la guerra e la pace, tra la vita e la morte, su ciò che sia bene e ciò che sia male.

23 marzo 2022