Alla veglia dell’Azione Cattolica il coraggio di chiamarsi fratelli

A San Pio V l’incontro con centiania di giovani e adulti . L’assistente ecclesiale Ac, monsignor Mansueto Bianchi: «Usciamo dallo spazio protetto di questa chiesa e proviamo ad andare per strada, nelle piazze»

«Questa è la serata del coraggio perché pronunciamo la parola “fratello” in un tempo rosso di sangue e vendetta. Dove “fratello” è una parola bucaneve che nel cuore dell’inverno minutamente fora il gelo e fiorisce, annunciando la primavera che verrà. È una profezia e insieme una speranza, quella che noi stasera torniamo a pronunciare nel cuore del nostro inverno». È sabato sera, e la parrocchia di San Pio V è gremita di centinaia di giovani e adulti riuniti per la Veglia della Pace, secondo appuntamento promosso dall’Azione Cattolica per riflettere, come ogni gennaio, sull’impegno per la pace partendo dal messaggio di Papa Francesco, che quest’anno ha come tema “Non più schiavi ma fratelli”.

Insiste sul coraggio, nella sua omelia, l’assistente ecclesiale generale dell’Associazione, monsignor Mansueto Bianchi: «Perché ci vuole coraggio, mentre i nostri sogni grondano sangue, e penso a Charlie Hebdo, a Boko Haram, a pronunciare la parola “fratelli”. Non più schiavi ma fratelli. Lasciamoci prendere per mano dalla parola fratello, guidati da essa usciamo dallo spazio protetto di questa chiesa e proviamo ad andare per strada, negli incroci, nelle piazze, proviamo ad andare nella vita tenuti per mano dalla parola “fratello”. Una parola che – prosegue – non è letteratura, non è un buon sentimento né la vampata di un momento che poi lascia cenere» bensì «un codice di vita, un criterio di relazione, un progetto di civiltà».

Può sembrare che «schiavo» appartenga a certe pagine oscure, a «certe stagioni velate, invece è una parola di impressionante attualità. La “cosificazione”, mediante cui la persona diventa merce, strumento, risorsa da spremere, ha diverse “culle”: in ambito politico vuol dire discriminazione, razzismo, guerra, esclusione dai diritti, contrazione degli spazi della libertà della partecipazione, della democrazia. Vuol dire terrorismo». In ambito economico «vuol dire povertà, mancanza di lavoro, impossibilità di accedere a cultura e formazione. Vuol dire corruzione. Mercato dei corpi, nella prostituzione così come nella guerra».

Nelle relazioni personali, infine, «siamo noi che generiamo schiavitù: quando non facciamo discernimento sulle scelte politiche che avvengono nella nostra città, quando siamo qualunquisti. Quando acquistiamo prodotti e beni di consumo che hanno dietro di sé lo sfruttamento delle persone, soprattutto delle donne e del lavoro minorile. Siamo noi, quando ci lasciamo persuadere da chi urla di più, parlando non alla ragione ma alle viscere degli istinti piuttosto che alla coscienza. Siamo noi quando non diamo spazio al servizio. Quando diventiamo talmente tirchi da non regalare neppure le parole a quelli con cui nessuno vuole parlare. Prima che ce la rivolga Dio alla fine della fine, la domanda “Dov’è tuo fratello?” – ha concluso – dovremmo rivolgercela ogni mattina prima di uscire di casa».

È questo, spiega Chiara Calzolaro, vice presidente diocesano per il settore giovani di Ac, «l’impegno che tutta l’associazione di Roma vuole prendersi: avere a cuore la vita di ciascuno come se fosse quella di suo fratello è il primo passo per costruire il bene comune». Le fa eco l’altro vice presidente, Emanuele De Santis: «Noi il coraggio di cui parla il vescovo lo vogliamo avere. Rivendichiamo il coraggio di pronunciare oggi la parola “fratello”, il coraggio di donare una parola o un sorriso, di essere custodi e prenderci cura dell’altro, facendo delle scelte coscienti e responsabili anche nella vita di tutti i giorni».

 

19 gennaio 2015