I sessant’anni del “Vangelo” di Pasolini

Nel 1964 il Premio speciale alla XXV Mostra di Venezia, oltre al Premio OCIC. Il fertilissimo intuito visivo e la capacità di scavo nella realtà di 2mila anni prima, resa in una cronaca palpitante

Alla XXV Mostra d’arte cinematografica di Venezia (27 agosto-10 settembre 1964) la giuria (presidente Mario Soldati), se da un lato assegna il Leone d’oro a Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, dall’altro non può fare a meno di attribuire un meritato Premio speciale a Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini con la motivazione: «Per l’intelligenza, per la sapienza storica e figurativa, per la durezza del significato sociale, per la genialità nella scelta dei tipi umani». Nella stessa edizione, il film di Pasolini, quasi a conferma dell’assoluto valore del prodotto, riceve anche il Premio OCIC con queste significative parole: «Per aver espresso in immagini di una autentica dignità estetica le parti essenziali del testo sacro. L’autore – senza rinunciare alla propria ideologia – ha tradotto fedelmente con una semplicità e una verità umana, talvolta assai commovente, il messaggio sociale del Vangelo, in particolare l’amore per i poveri e gli oppressi, rispettando sufficientemente la dimensione divina di Cristo».

Quando nel 1964 presenta Il Vangelo secondo Matteo a Venezia, Pasolini (Bologna, 1922) ha già alle spalle titoli quali Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La Ricotta ( 1963), La Rabbia (1963), Comizi d’amore (1963-1964). Una filmografia da subito incendiaria e provocatoria, che tuttavia contiene le premesse del film del 1964. È l’ottobre 1962 quando Pasolini, ospite della Pro Civitate Christiana di Assisi, prende il libro dei Vangeli che c’è in tutte le camere e comincia a leggere. Quel film nasce in quel giorno, insieme ad un vero nucleo e abbozzo di sceneggiatura (cfr. Cabiria, studi di cinema, nn 199-200). Lì arriva anche la dedica che all’inizio del film Pasolini fa: «Alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII». Da subito insomma dà ragione ai motivi espressi nelle due motivazioni veneziane.

L’occhio di Pasolini ha una capacità di scavo nella realtà di duemila anni prima da rendere quella cronaca vera e palpitante. E tutto concorre: dalla scelta degli attori, quelli principali (il Cristo di Enrique Irazoqui, uno studente di letteratura catalana), la Maria giovane di Margherita Caruso, e quella anziana (Susanna Pasolini, vera mamma del regista), i comprimari (la folla di visi scavati e sofferti, prototipo esatto dell’umanità addolorata e sofferente del periodo). In più Pasolini vi aggiunge musica (brani di Bach e Mozart), pittura e costumi, e le location -inedite (il film è girato tra Potenza e Matera) – a comporre il quadro finale di un’opera che nasce da un felicissimo incontro di momenti tutti ispirati e lirici, risultato di una forte compattezza, di un fertilissimo intuito visivo. Un’opera che 60 anni dopo conserva un fascino di inossidabile bellezza, e rivederlo oggi vuol dire riceverne le stesse emozioni di allora.

20 marzo 2024