“I ragazzi del Bambino Gesù”: dalla tv alle librerie
Presentato nell’ospedale pediatrico romano il libro di Simona Ercolani legato al documentario di RaiTre. Un viaggio nella malattia «senza retorica». Gli interventi di Enoc, padre Occhetta e monsignor Viganò
Dopo il successo del documentario a puntate su RaiTre, I ragazzi del Bambino Gesù è diventato un libro, a cura della stessa ideatrice, Simona Ercolani. Il volume, presentato oggi, 27 settembre, all’ospedale pediatrico romano, è stato realizzato con l’intento di destinarne i proventi delle vendite alla ricerca promossa dallo stesso ospedale Bambino Gesù.
In una gremita Aula Salviati, affollata di infermieri, medici e studenti, la presidente del Bambino Gesù Mariella Enoc ha portato il suo saluto, descrivendo l’opera presentata come un «libro vero» di «favole che finiscono bene». Nel mostrare storie di bambini e ragazzi che soffrono, ha sottolineato Enoc, non c’è alcun uso «pietistico» ma solo un richiamo ad avere «forza e coraggio» e a stimolare la «solidarietà». Obiettivo di una struttura come il Bambino Gesù, ha aggiunto la presidente, è quello di «salvare i bambini» e quando in ciò si fallisce è perché «siamo uomini», tuttavia anche il fallimento va visto come uno stimolo a rafforzare la ricerca scientifica, non per «vincere la morte» ma per dare una «qualità della vita migliore» a tutti i pazienti ricoverati.
Moderando l’incontro, il giornalista Riccardo Bocca ha apprezzato il coraggio con cui l’autrice ha affrontato il «tabù della malattia infantile» che la cultura dominante attuale tende a negare, «fino a che non bussa alla porta» della gente. Autore della prefazione del libro, il prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, monsignor Dario Edoardo Viganò, ha introdotto il suo intervento con una citazione da Albert Camus: «Non è la sofferenza del bambino a essere ripugnante ma il fatto che non è giustificata». In un’ottica cristiana, tuttavia, la sofferenza dei più piccoli «apre uno squarcio drammatico» alla «contemplazione unica di un altro giovane Figlio che è stato crocifisso». Tutte le altre risposte, ha aggiunto Viganò, non sono che un «balbettio consolatorio e ideologico». Il lavoro documentaristico e letterario di Simona Ercolani, ha aggiunto, ha anche il merito di mostrare uno spaccato delle domande esistenziali dei ragazzi malati, che spesso riescono a scalfire e destabilizzare le “sicurezze” della scienza e della medicina.
L’autrice ha spiegato che la serie tv e il libro nascono «dall’idea di raccontare un momento particolare della vita come l’adolescenza, in una circostanza ancor più particolare come la malattia». Un aspetto emerso dall’intero lavoro è il fatto che «l’amore che circonda la malattia sia importante quanto la ricerca». In un mondo in cui si parla per lo più dell’amore dei genitori verso i figli, il documentario e il libro mettono in luce soprattutto «quanto i ragazzi ci amano: in questa serie lo abbiamo scoperto ma, come genitori, non sempre ce ne ricordiamo». Ercolani ha quindi raccontato la genesi del progetto, sorto con l’obiettivo di trattare la problematica della malattia adolescenziale «senza morbosità»: a poco a poco, è cresciuto un clima di fiducia tra pazienti, famiglie, troupe e personale medico-infermieristico, con puntate via via mostrate in anteprima a un pubblico ristretto di esterni, per valutarne l’impatto e gli eventuali eccessi.
Padre Francesco Occhetta, scrittore della Civiltà Cattolica, ha evidenziato l’esigenza di una maggiore «personalizzazione» della cura e di una salute che sia sempre più intesa in un’ottica di “salus”, ovvero di salvezza. Al tempo stesso, ha aggiunto il gesuita, la malattia va affrontata nello spirito del prossimo, ovvero del vicino, proprio come fa il Buon Samaritano. Nella malattia, ha evidenziato, bisogna essere «generativi», vivere la «provocazione della carezza» e offrire, prima ancora che parole e cure, «uno sguardo e una presenza».
Per il direttore di RaiTre Stefano Coletta, uno dei punti di forza del documentario sta nell’avere «senza retorica, portato consolazione», attraverso un viaggio nei legami più intimi, laddove c’è più autenticità. Il lavoro di Simona Ercolani ha anche il merito, secondo Coletta, di aver «superato il tabù della morte», particolarmente forte in tv, e del luogo comune di «brutto male», portando il tema in una dimensione più umana. (Luca Marcolivio).
27 settembre 2017