I “nuovi” romani: “Radici in movimento”
Presentato il cortometraggio “Moving Roots”, nato da un’idea di padre Beltrami. Felicolo (Migrantes): «Non parliamo di seconde generazioni ma di nuove generazioni»
Letizia aveva ancora gli occhi chiusi quando è stata abbandonata. Una piccola vita indifesa lasciata sui binari di una ferrovia di Kinshasa, in Congo. Un angelo, però, è arrivato a salvarla. «Si chiama François – racconta a RomaSette -. Mi portò in un orfanotrofio. Poi mi hanno adottata». Letizia ora ha vent’anni ed è cresciuta nella Città Eterna. Mentre parla, vicino a lei ci sono Danielle e Ria, due giovani ragazze romane di origini filippine. Tre storie diverse, ma accomunate dallo stesso leitmotiv: il sentirsi come delle acrobate in bilico su un filo. Alla continua ricerca della propria identità. Da una parte le radici della propria terra. Dall’altra quelle che stanno crescendo qui in Italia. Innaffiarle entrambe non è impresa facile.
Di questo parlano in “Moving Roots. Radici in Movimento”, un cortometraggio che sposa l’esortazione di Papa Francesco nell’enciclica Evangelii Gaudium a riportare la Chiesa alla sua vocazione missionaria e inclusiva. È stato presentato sabato 9 novembre, nella sala multimediale della parrocchia Santissimo Redentore, a Roma. Un progetto sostenuto dalla Fondazione Migrantes della Cei e nato da un’idea di padre Gabriele Beltrami, il parroco. «Ne hanno tante di radici, più di quelle che pensavano di avere», ha sottolineato il sacerdote. «Non parliamo di seconde generazioni, ma di nuove generazioni – ha esortato monsignor Pierpaolo Felicolo, direttore generale della Fondazione Migrantes -. Il termine da usare non è integrazione ma interazione».
Il lavoro è stato scritto, studiato e realizzato dalle tre ragazze, che appartengono alla comunità territoriale del III municipio, con l’aiuto della giornalista Claudia Pollara e della videomaker Serena Cirillo. «I miei genitori non li ho mai conosciuti – continua a raccontare Letizia -. Sento una mancanza profonda». Dell’Africa ha solo ricordi felici. Ha vissuto nell’orfanotrofio fino agli otto anni. «Eravamo poveri, ma sempre sorridenti. Mentre qui quando piove apriamo l’ombrello, lì invece facevamo i tuffi nelle pozze che si formavano nei corridoi, come se fossimo in una piscina».
Poi è arrivato il momento dell’adozione. «Un trauma – lo definisce -. Dovevo andare in albergo con i miei genitori, ma non ci volevo stare. L’orfanotrofio era l’unico posto che mi faceva sentire al sicuro». E adesso? «Non è facile. È un processo di accettazione molto complicato». Ma si ritiene fortunata. E lo ripete per ben due volte con gli occhi semilucidi. «Sono stata l’ultima ad essere stata adottata prima che bloccassero le adozioni. Ne mancavano quattordici e io sono stata la quattordicesima. Ho preso l’ultimo treno. Lo reputo un segno del destino». Ora una sua identità sente di averla trovata, nonostante il razzismo che ha dovuto subire soprattutto alle medie. La cattiveria dei suoi compagni che la insultavano per il colore della pelle e l’indifferenza dei professori che chiudevano gli occhi. «Sono sempre rimasta me stessa – sottolinea orgogliosa -. Penso che l’identità si raggiunga trovando la propria strada. Io l’ho individuata nella musica. Ho due sogni: diventare una cantante e aiutare chi non è stato fortunato come me». Le brillano gli occhi quando parla del documentario. «Mi ha fatto sentire finalmente libera e ascoltata».
La stessa emozione che ha provato Danielle, che mette subito le mani avanti, come a difendersi, chiedendo scusa per la sua timidezza. Il suo tono di voce, infatti, è molto basso. Ma ha una gran voglia di raccontarsi. Ha vent’anni ed è nata e cresciuta a Roma. «Non ho mai visto le Filippine – dice -. Mia nonna si è trasferita qui con mio padre e mia madre parecchi anni fa per motivi lavorativi». Non conosce nemmeno la lingua della sua terra. «La mia famiglia non è molto conservatrice. Non me l’ha mai insegnata, così come non mi ha trasmesso le tradizioni. Durante le feste comunitarie mi sento messa da parte. Non riesco a capire molto le conversazioni in lingua filippina». Si è sviluppato così in lei un senso di chiusura. «Sono un po’ introversa di carattere. Questa situazione non ha fatto che peggiorare le cose. Ma realizzare il documentario mi ha aiutato a esprimermi. Spesso, purtroppo, noi ragazzi di seconda generazione ci teniamo tutto dentro».
Il sorriso di Ria, anche lei di origine filippine, trasmette tranquillità. Quella serenità di chi ha trovato la quadra dopo tanta fatica. E adesso si gode finalmente un po’ di pace. «Mi sono trasferita a Roma con i miei genitori quando avevo nove anni», racconta a RomaSette. Ora ne ha dieci in più, ma se lo ricorda benissimo quel momento. «Imparavo l’italiano guardando Peppa Pig – dice con una mezza risata -. Poi, per fortuna, ho trovato dei compagni fantastici che mi hanno aiutato». Alle medie, però, una frase detta con cattiveria le ha cambiato momentaneamente la percezione delle cose. «Ero a una festa scolastica. Stavo portando una brocca d’acqua per fare una gentilezza e mi è stato detto: “Brava, questo è il tuo lavoro”. Sono corsa in bagno e mi sono messa a piangere. È un episodio che mi ha condizionato nelle relazioni successive». Negli scorsi anni Ria ha sofferto molto anche l’essere in bilico tra due culture. «Ora, però, sono arrivata alla conclusione che è solo un problema degli altri, non mio. Io sono io, basta». Cammina sempre su quel filo, ma adesso non si sporge più giù con lo sguardo. I suoi occhi guardano dritto. Non ha più le vertigini.
11 novembre 2024