“I Capuleti e i Montecchi” apre la stagione dell’Opera

Intervista al direttore del Coro del Teatro, Roberto Gabbiani, sull’allestimento in corso al Costanzi fino al 6 febbraio e sugli altri spettacoli in programma

«Una festa di matrimonio interrotta dalle armi e le armi messe a tacere dalla morte». Questa la sintesi de “I Capuleti e i Montecchi”, capolavoro del Belcanto di Vincenzo Bellini secondo il regista Denis Krief (che cura anche le scene, i costumi e le luci) nel nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma diretto dal Maestro Daniele Gatti. Prima opera del 2020 per la stagione in corso del Costanzi, fino al 6 febbraio l’ente lirico capitolino accoglie la nota tragedia in due atti su libretto di Felice Romani.

Rappresentata in prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia l’11 marzo 1830, vi si racconta un fatto di cronaca tragico – la morte di due ragazzi innamorati – accaduto nel XIII secolo in una città, Verona, in cui la legge sonnecchia e famiglie rivali si fanno impunemente la guerra. Sul palco, a rendere più rispondente al vero la vocalità adolescenziale dei protagonisti, salgono il mezzosoprano in travesti (qui Vasilisa Berzhanskaya) che interpreta Romeo, mentre Mariangela Sicilia e Benedetta Torre si alternano nel ruolo di Giulietta. In scena anche Iván Ayón Rivas e Giulio Pelligra, nel ruolo di Tebaldo, Nicola Ulivieri, che interpreta Lorenzo, e Alessio Cacciamani nel ruolo di Capellio.

Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma sarà invece diretto dal maestro Roberto Gabbiani, il quale chiarisce l’equivoco che accompagna questa fatica belliniana, troppo spesso associata o comparata a “Romeo e Giulietta” che Shakespeare scrisse tra il 1594 e il 1596 e che nel nostro Paese, all’epoca, era invece di fatto sconosciuta: «Bellini si rifà alle novelle scritte in passato su questa storia. Credo che pensasse alla tradizione italiana. In specie alla novella di Matteo Bandello», che è del 1554, dunque precedente all’opera del Bardo, ovvero “La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’uno di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti”.

 Nell’opera “I Capuleti”, trovano spazio la dolcezza melodica e l’espressività del canto che insieme ben si adattano al tema, ovvero la triste storia degli amanti veronesi.
Vero, sebbene il titolo dell’opera lasci credere che essa sia di grande ampiezza corale e invece così non è. Nominare esplicitamente “I Capuleti e i Montecchi” nel titolo fa pensare innanzitutto alle dinamiche di due famiglie dove la storia dei due giovani dovrebbe essere secondaria. Poi scopri che si parla di un padre molto severo, di un tenore innamorato di una fanciulla, di due giovani amanti. Sarebbe stato logico intitolarla a Romeo e Giulietta invece che ai Capuleti e ai Montecchi. Verdi, per dire, su un titolo come quello dato dal Bellini a quest’opera, avrebbe scritto pagine corali di enorme respiro.

Roberto Gabbiani, direttore del Coro del Teatro dell’OperaMaestro Gabbiani, perché l’amore contrastato di due giovanissimi esercita un tale fascino da essere così appetibile per il mondo della musica e dell’arte in generale? Di Romeo e Giulietta hanno scritto, solo per citarne alcuni, Berlioz, Čaikovskij, Bernstein.
Non è facile rispondere. Due giovani si avvicinano alla maturità della vita e vorrebbero abbracciarla totalmente: è la trascrizione di un sentimento così forte che fa pensare che il compositore possa aver attinto alla propria esperienza. In fondo anche Bellini era giovane quando scrisse quest’opera, 28 anni appena, e morì non avendo ancora compiuto 34 anni. I giovani hanno un potere magico nei confronti della storia. Hanno la possibilità di diventare eroi o, al contrario, di farsi protagonisti di vicende drammatiche. In questa, Romeo è un ragazzo che aveva già combattuto e si presenta come uno che vuole la pace. Dice che, sì, ha ucciso ma in un conflitto armato. Ciò vuol dire che ha già vissuto la ferocia della guerra ma non l’amore. La morte, nel bilancio della sua esistenza, è avanti. Da lì il desiderio di conoscere l’amore – credo sia questo il messaggio di Bellini – sebbene non l’abbia potuto vivere appieno. Spostandoci nel tempo, Bernstein fa lo stesso riportando nelle periferie di oggi quel mondo drastico, dove la purezza dei giovani cerca di vincere la sopraffazione con l’amore.

Qual è il ruolo del Coro in un’opera che ha due personaggi al centro della trama?
Nell’opera di Bellini la parte affidata al coro è vista come cornice d’oro di un quadro in cui l’attenzione è posta sui soggetti protagonisti. Il compositore tratta il coro in modo delicato e il suo intervento non è solo un passaggio ma espressione di un cambio d’umore: di ciò che è avvenuto, che sta avvenendo o che avverrà. Ad esempio in “Lieta notte, avventurosa” esprime gioia per un avvenimento che sta per avvenire, il matrimonio di Giulietta, mentre nella marcia funebre del secondo atto c’è la tensione della tragedia. Bellissima pagina, quest’ultima, che presenta non un carattere importante e formale ma etereo e spirituale.

Bellini affidò a Giuditta Grisi, mezzosoprano, il ruolo maschile di Romeo, inserendosi così in una lunga tradizione, tuttavia prossima a cadere in disuso.
Il ricorso alla voce femminile per una parte maschile non è una novità nella storia della musica. Nel Seicento se ne fece largo uso. Così pure nel Settecento. Finita l’epoca dei castrati, gli acuti venivano sostituiti da mezzosoprani e le cantanti dovevano saper dimostrare un’immensa bravura. Dopo Bellini si volta pagina e il cambio di passo arriva con Verdi. Il sentimento e la vocalità eterea lasceranno il posto ad altri più terreni, più sanguigni portati in scena da voci più drammatiche e robuste.

Il Coro del Teatro dell’Opera sarà ancora impegnato nel prosieguo della stagione con l’Evgenij Onegin di Čaikovskij, tratto dal romanzo in versi di Puškin e qui diretto da James Conlon. Lo spettacolo, in lingua originale, avrà la regia di Robert Carsen. Sarà in scena dal 18 al 29 febbraio. «L’opera ha pagine corali importanti – racconta il Maestro Gabbiani – non facili a cantarsi e dove la difficoltà maggiore è nella lingua poiché è in russo. Una bella sfida per tutti».

Dal 22 al 31 maggio torna invece un giovane Verdi con la sua “Luisa Miller”, raramente presente nella storia del Costanzi, per la regia di Damiano Michieletto. «Meno conosciuta al grande pubblico, vero, ma ha pagine di mestiere che si alternano a pagine profonde, anticipando il Verdi che sarà». Scritta nel 1849 e trascurata per quasi un secolo, quest’opera ebbe infatti la sua prima romana nel 1938 e fu ripresa poi nel 1949 e di nuovo nel 1990. In quest’ultima data la diresse Roberto Abbado, che tornerà sul podio per questo lavoro tratto da Schiller (“Intrigo e amore”), ritenuto portante nell’evoluzione stilistica del compositore di Busseto.

Due importanti titoli di Stravinskij, entrambi diretti da Daniele Gatti, chiuderanno la stagione nella seconda metà di ottobre. Un nuovo allestimento del Rake’s Progress (“La carriera di un libertino”) dal 18 al 29 – rappresentato al Costanzi una sola volta nel maggio 1968 – che vede protagoniste in un nuovo allestimento tutte le forze del teatro capitolino, avrà la regia di Graham Vick. A intercalarsi tra le date del Rake’s Progress ci sarà, il 23 e il 24 ottobre, l’oratorio stravinskiano “Oedipus Rex” (testo di Jean Cocteau tradotto in latino da Jean Daniélou, ispirato all’omonima tragedia di Sofocle) affidato alla narrazione di Massimo Popolizio. Accanto a lui le voci di Brendan Gunnell nel ruolo di Edipo e di Ekaterina Semenchuk in quello di Jocasta. Eseguita la prima volta al Costanzi nel 1964, regia di Squarzina, le scene e i costumi furono disegnati da Giacomo Manzù, che proprio con questa commissione dell’amico Stravinskij fu avviato al mondo del teatro.

28 gennaio 2020