“Hotel California”, le dipendenze nel capolavoro degli Eagles

Dentro il brano del 1976 che ha fatto epoca anche grazie al celebre assolo di chitarre nel finale

Parlando al clero romano, nei giorni scorsi, il Papa ha commentato l’episodio del “vitello d’oro” tratto dal Libro dell’Esodo in cui Dio minaccia il popolo di Israele di lasciarlo solo, di non camminare più alla sua testa. E, dice Francesco, «la minaccia di Dio apre il varco all’intuizione di cosa sarebbe la nostra vita senza di Lui, se davvero Egli sottraesse per sempre il suo Volto. È la morte, la disperazione, l’inferno».

Ma l’inferno come realtà di vuoto, di condizione senza speranza, da cui si fatica a uscire perché si punta solo sulla propria autosufficienza, si può cantare? Penso che il testo di una delle più celebri canzoni della storia del rock possa darne un’idea. Descrivendo situazioni di “morte”, dalla droga all’alcol, che conducono a un ambiente (soprattutto interiore) del quale di fatto si rimane prigionieri.

Parlo di “Hotel California”, il famoso brano degli Eagles con un leggendario assolo finale di due chitarre, scritto nel 1976 da Don Felder, Don Henley e Glenn Frey. Brano che suggellò il successo del gruppo nato cinque anni prima, reduce dal boom del precedente album “One of these nights” e dall’assegnazione del primo Disco di platino della storia (inventato per il milione di copie al loro “Greatest Hits” del 1976, che poi ha raggiunto i 38 milioni di copie vendute).

“Hotel California” – che qui vediamo in una versione “live” –  racconta la storia di un viaggiatore che di notte, lungo un’autostrada «buia e deserta», è costretto a fermarsi. «La mia testa si era fatta pesante / la vista sempre più fioca». Ad accoglierlo, una donna. «Lei stava ritta sulla soglia / io sentii la campana di una chiesa di missione» (che appare l’unico suono di speranza in questo contesto), «e stavo pensando dentro di me / “Questo può essere il Paradiso o anche l’Inferno”».

Quindi, il famoso ritornello. «Si udivano voci nel corridoio / mi sembrava che dicessero: / “Benvenuto all’Hotel California / un posticino così accogliente (un’accoglienza così positiva) / Abbondanza di camere all’Hotel California / puoi trovare qui, ogni giorno dell’anno”». Poi voci, visioni, un chiaro riferimento all’effetto delle droghe e dell’alcol, «specchi sul soffitto, champagne rosé con ghiaccio, Lei disse: “Qui siamo tutti prigionieri del nostro capriccio”». Una realtà così inquietante da non riuscire più a uscirne: «Si rilassi – disse il portiere di notte – lei può pagare il conto quando vuole ma non può mai andarsene» (parole del finale del brano).

Una canzone che, a detta degli stessi autori, parla della «nostra interpretazione della bella vita a Los Angeles, sull’oscura vulnerabilità del sogno americano» (parole di Don Henley). «Il concetto era rivisitare tutto quello che la band aveva attraversato sul piano personale e professionale». Ma al di là dell’origine del brano, come in ogni opera artistica, e di fronte ad un testo che ha dato adito a più di una interpretazione, c’è poi la lettura che ogni fruitore può darne. E qui c’è spazio per riflettere sulle tentazioni dell’uomo, sulla sua ricerca smodata del piacere, sulle schiavitù e sulle dipendenze in cui finisce per essere attratto, capacità autodistruttiva che a volte notiamo nei giovani. Lasciandosi accompagnare da una musica che ha fatto epoca e che in tanti continuano ad ascoltare.

Del resto, gli Eagles, ultrasettantenni, anche se privi di Glenn Frey, scomparso nel 2016, continuano a esibirsi sui palcoscenici di tutto il mondo, nonostante l’annunciato scioglimento di tre anni fa proprio per la morte di Frey. Oggi, 13 marzo, e domani suoneranno a Sydney, in Australia; dal 26 marzo saranno in Europa, a cominciare dal Belgio, fino a luglio. Nessuna data prevista in Italia (dove mancano dal 2014, unica serata a Lucca). Almeno per ora. I fan attendono.

13 marzo 2019