“Guerra e pace” e la fatica del docente

Una riflessione sulla fatica del cammino accanto a una classe, tra impegno, volontà di sperimentare e percezione dei propri limiti, che cresce con la maturità dell’educare

Ieri pomeriggio stavo ascoltando un podcast di Alessandro Barbero sulle guerre napoleoniche in Guerra e pace. Verso la fine del racconto, chiaro, appassionato e godibile, il discorso cade sulla caratteristica fondamentale di quelle battaglie: il caos sovrano, l’imprevedibilità degli eventi, il continuo e inutile tentativo dei generali di inquadrare geometricamente movimenti e tensioni che al momento dello scontro si frantumano nell’informe della confusione e dell’improvvisazione.

A un certo punto nel romanzo di Tolstoj, i due personaggi principali, Andrej Bolkonskij e Pierre Bezuchov, discutono su due modi distinti di intendere quanto accade in battaglia e la capacità possibile o meno degli uomini di indirizzarlo. Se Pierre, che la guerra non la fa, ritiene che un «bravo generale» possa guidare, ordinare e determinare le sorti della battaglia, Andrej Bolkonskij ribatte, con tutta la disillusione e lo scetticismo di chi la guerra l’ha fatta e sa che davvero in certi momenti quel caos è inevitabile e non ci sia generale che possa illudersi di governarlo.

Giugno è finito, dopo tre anni ho terminato con l’esame di Stato un triennio insieme a una delle migliori classi mai avute, quella della lettera di commiato dell’articolo precedente. È stata una guerra? No, per carità. Ma della guerra ci sono stati sicuramente tanti aspetti: la fatica della lunga traversata e molte volte l’incertezza dell’obbiettivo, i periodi di stallo e lo scoprirsi dell’orizzonte dall’altura, la convinzione di arrivare alla meta e il timore di non farci arrivare tutti. Mi domando se in questi tre anni mi sono sentito più come Pierre Bezuchov con la sua fiducia limpida nella possibilità di controllare gli eventi con competenza e programmazione o come Andrej Bolkonskij, che pare arrendersi all’imponderabilità di quanto accade, al di là dell’impegno e di qualsiasi volontà di previsione. Mi rispondo che ovviamente vorrei dire di essere stato Pierre ma che nell’onestà con me stesso non posso non sentirmi di essere stato Andrej.

Passano gli anni, e a rischio di apparire lagnoso, mi rendo conto come nonostante lo studio personale, l’impegno, la volontà di sperimentare siano aumentati esponenzialmente, parimenti è deflagrata nel mio vissuto la percezione di quanto ci siano minime certezze in quell’universo infinitamente complesso e in espansione che è un rapporto educativo con più soggetti e che si protrae per qualche anno. Eppure, mai come negli ultimi tempi, mi capita di leggere, ascoltare, assistere a dichiarazioni perentorie sul come si fa a scuola, su come non si fa, su come si possa squadrare l’animo informe.

Io non lo so se i dubbi che aumentano siano i segni di una stanchezza personale che inizia o se invece davvero la maturità dell’educare porti inevitabilmente in dote la percezione profonda del proprio limite. Potrei consolare questa ammissione di debolezza con la coscienza di quello che poi in Guerra e pace avviene a Pierre ma soprattutto ad Andrej, che fin da quando lessi per la prima volta negli anni universitari Guerra e pace, ben prima di essere insegnante, divenne per me (ed ancora è) il personaggio più amato. Ma questo, ovviamente, è un dettaglio personale.

1° luglio 2021