“Green Book”, un’amicizia contro i pregiudizi nell’America anni ’60

Una storia che comincia con diffidenza e sospetti per chiudersi su spazi di incontro e di dialogo, fino a toccare il senso di un legame mai lontanamente immaginato

È passato alla Festa di Roma il 24 ottobre, ottenendo da subito applausi sinceri e convincenti. Stiamo parlando di “Green Book”, film di Peter Farrelly, uscito nelle sale giovedì scorso e candidato a ben 5 premi Oscar per la serata del prossimo 24 febbraio (miglior film, miglior attore protagonista Viggo Mortensen, migliore attore non protagonista Mahershala Ali, migliore sceneggiatura originale, miglior montaggio). Il numero di candidature offre l’idea di come il film sia piaciuto sia per quanto riguarda le soluzioni tecniche sia in ordine alla creazione artistica.

La storia prende il via nella New York del 1962, anche se poi il seguito si svolge nel resto dell’America, più in dettaglio negli Stati del Sud, quelli nei quali era ancora forte la presenza del pregiudizio contro gli afroamericani. A questo proposito è utile chiarire il titolo. “Green Book” fa riferimento a “The Nigro Motorist Green Book”: così si chiamava una guida turistica pubblicata annualmente dal 1936 al 1966, che elencava strutture, come locande, hotel e ristoranti, dove erano ammessi e serviti clienti di colore. Il Green Book, creato e pubblicato da un postino afroamericano, Victor Hugo Green, si rivelò uno strumento indispensabile per gli afroamericani che viaggiavano in auto. Proprio su questo mezzo, così decisivo nel costruire l’immagine dell’America on the road, troviamo riuniti i due protagonisti, l’italoamericano Tony Lip, rimasto senza lavoro dopo la chiusura di uno dei migliori club di New York dove aveva il ruolo di buttafuori, e Don Shirley, pianista afroamericano che Tony accompagna in un tour nel Sud degli Stati Uniti.

Osserva Viggo Mortensen: «Il nostro “road movie” comincia su una Cadillac Coupe De Ville nel 1962 e noi siamo costantemente insieme, perché io sono la sua guardia del corpo e devo stare con lui ovunque vada. Per quanto in corso di opera emergano tanti altri temi, l’ostacolo più complesso che ciascuno deve affrontare lo trova dentro se stesso». Le differenze caratteriali tra Tony e Don sono il legame che divide all’inizio e unisce i due alla fine. Quando Tony in macchina fuma, mangia continuamente, fa domande personali, Don si mostra insofferente e disturbato, e più volte il rapporto professionale tra i due sembra vacillare.

Già regista di commedie incentrate su meccanismi comici talvolta sopra le righe ( Tutti pazzi per Mary, 1998; Amore a prima svista, 2001; Fratelli per la pelle,2003) diretti insieme al fratello Bobby, Peter Farrelly cambia qui decisamente registro e vira su un copione solido, compatto e fortemente di senso, che tuttavia non esclude sprazzi di umorismo intelligente. Ancora una volta il “road movie” taglia il traguardo di una storia che comincia con diffidenza e sospetti per chiudersi su spazi di incontro e di dialogo, fino a toccare il senso di un’amicizia mai lontanamente immaginata. Lo stile fluido, incalzante, l’ambientazione d’epoca con ottime scelte musicali, i dialoghi mai banali o prevedibili, restituiscono l’idea di un periodo bello e complicato, di un’America che provava ad essere un grande Paese con ancora carenze in ordine alla civiltà e al vivere sociale (la questione razziale). I due protagonisti sono affidati ad attori di grande forza e capacità, entrambi meritevoli di Oscar. Ma, si sa, i vincitori saranno solo pochi e gli sconfitti tanti. Alla fine vincerà il bel cinema, perché “Green Book” è comunque un bel film.

5 febbraio 2019