Gli scrittori a scuola vogliono piacere a tutti i costi

I dubbi sulla presenza di intellettuali spesso intenzionati solo a presentare i loro libri. Con uno stile che ricorda John Keating, il professore del film “L’attimo fuggente”

Capita spesso che a scuola vengano invitati scrittori a parlare del proprio libro. Si tratta di una buona opportunità, anche per il sottoscritto: ogni anno cerco di organizzare almeno un paio di incontri con autori che ritengo possano essere utili ai ragazzi, anche se chiedo espressamente che non si parli solo del libro. A riguardo, per esperienza diretta e per quanto osservo in rete, mi è capitato però di soffermarmi su un dettaglio di certo banale, ma con la sensazione crescente che lo sia molto meno di quanto potrebbe sembrare.

Si tratta di questo: tanto più se giovane, diciamo trenta-quarantenne, lo scrittore o la scrittrice invitato/a a scuola e in genere ospitato/a in aula magna eviterà puntualmente il posto dietro la cattedra (mai sia) e siederà senz’altro direttamente col sedere sul tavolo, meglio con le gambe incrociate all’indiana (fatevi un giro, soprattutto sui social e lo noterete anche voi). Condurrà, se ci riuscirà, l’incontro tra battute alternate a massime di vita dozzinali, rigorosamente in t-shirt giocherellerà con il microfono e infine consegnerà l’esperienza ai posteri della rete, magari la sera stessa, con un post commemorativo il cui sottotesto sarà: «Io sì che li ho intercettati questi ragazzi, altro che questa scuola e i loro docenti incartapecoriti».

Ecco, solo su questo potremmo discutere ore, per quanto mi riguarda, al fine di dimostrare il fallimento di una presenza di questo tipo degli scrittori/scrittrici a scuola, al pari della mai troppo maledetta e pacchiana salita di John Keating – il professore del film “L’attimo fuggente” interpretato da Robin Williams – su quel cavolo di cattedra (almeno si fosse pulito i piedi). Ma per rimanere nel nostro spazio e al fine di mettere a tema la riflessione di tutti, mi limito a tre considerazioni.

La prima è in parte giustificatoria e riguarda la legittima e sacrosanta (ma rimossa) fifa dello scrittore ospite, che si sente dato in pasto a un’assemblea di liceali quando va bene, che non fanno sconti su nulla, che se non reggi fanno casino, vedi figure penose alle quali ho assistito al cospetto anche di presunte star della letteratura nostrana. Lo scrittore pensa forse inconsciamente di esorcizzare quella paura con un «ehi, ma io sono come voi, vi capisco». Niente di più sbagliato e sterile.

La seconda considerazione riguarda questa cosa per me inspiegabile e inspiegata della fobia in merito all’alterità docente-discente, anche fosse per un solo incontro. Ringrazio il cielo di aver incontrato al liceo e all’università maestri che sentivo a una distanza siderale dalla mia esperienza e soprattutto dalla mia ignoranza. È per la fascinazione di quella distanza che continuo a studiare.

Terza e ultima considerazione: che va a dire uno scrittore, o meglio, che va a dire un intellettuale a scuola? Quale dovrebbe essere il modello? Io credo che anzitutto non dovrebbe andarci per raccontare il suo romanzo. Lo studente se vuole lo leggerà da solo e spesso e a ragione, specie dopo l’incontro, non vorrà. Ci va invece per esercitare una funzione che lui solo e solo lui può testimoniare. Un esempio per me, che posso solo accennare e che affido al credito concesso da chi sta leggendo: il ricordo di una lezione di Romano Luperini che parlando di modernismo (sì, di modernismo) ha ammutolito cento ragazzi per due ore, da dietro la cattedra e senza sconti alla densità del proprio discorso. Un’ultima considerazione agli amici docenti che rivendicano il proprio sedere sulla cattedra dico: «Certo, anche io lo faccio, ma quella è la nostra cattedra». A tra quindici giorni.

21 novembre 2018