Gli scarti vertiginosi di Ellen Meloy

Una scrittura rabdomantica che risale alle origini della visione umana, con la forza oscura e luminosa che spingeva gli avi verso territori sconosciuti e rischiosi. La forza dell’istinto

«Ho sempre avuto delle anatre, fin da bambino », scrisse W.G. Sebald in Gli anelli di Saturno, «e sempre il colore delle loro piume, soprattutto il verde scuro e il bianco candido, mi è sembrato l’unica risposta possibile agli interrogativi su cui da una vita m’arrovello». Forse per capire quali fossero queste domande Ellen Meloy (1946-2004), che mise in epigrafe tale citazione alle sue riflessioni sul deserto, sul mare, sulle pietre e sul cielo in una raccolta di saggi, Antropologia del turchese (pp. 357, Black Coffe, 18 euro), tradotta e curata con rigore e passione da Sara Reggiani, alzava gli occhi verso l’alto cercando un nesso imperscrutabile fra i crepacci di Canyonlands e il blu profondo sovrastante: quest’ultimo colore, secondo Vasilij Kandinskij, è quello «che più richiama l’idea d’infinito, suscitando nostalgia della purezza e del soprannaturale».

La scrittrice, scomparsa due anni prima della pubblicazione del libro, nei suoi vagabondaggi fra Utah, Colorado, Yucatàn e Bahamas, risale alle origini della visione umana, all’epoca preistorica in cui l’homo sapiens usava i propri recettori sensoriali «per anticipare
pericoli o individuare ricompense»: «È con occhi di predatore che ammiriamo l’arte di Tiziano o il Gran Canyon immerso nel bagliore ramato di un tramonto estivo». Prima che inventassero il linguaggio i nostri avi entravano in rapporto istintivo coi luoghi interpellando il cuore, non la ragione. La forza oscura e luminosa che li spingeva verso territori sconosciuti e rischiosi orienta oggi Ellen Meloy che, portandosi dietro un kit da campo appartenuto al fratello defunto, si sgancia dalle freeways di Los Angeles e attraversa idealmente il Mojave a nuoto tuffandosi in una piscina che le fa pensare alle terme romane.

Sono proprio questi scarti vertiginosi a puntellare la sua scrittura rabdomantica: fra il Mesozoico e il più vicino autolavaggio. Chiunque sia stato nel Sud Ovest americano sa di cosa si tratta. Edward Abbey, in Desert solitaire, ne ricavò una dichiarazione poetica: «Io scelgo Moab, Utah. Non la cittadina in sé, ovviamente, ma la regione che la circonda: il territorio dei canyon». Alex Shoumatoff, all’inizio della sua ossessione per il vuoto, non sapeva come comportarsi: «Vagando nell’Arizona nordorientale, avevo spesso l’impressione di viaggiare su un antico fondale marino» ( Leggende del deserto americano).

Antropologia del turchese rievoca le medesime atmosfere. Ma qui lo sguardo è quello di una donna: naturalista, antropologa, visionaria. Capace di incarnare come meglio non si potrebbe il potere misterioso che emana dalla pietra da lei scelta come esclusiva: «È acqua, dicono gli Zuni. È nutrimento per il cuore, sostenevano gli Atzechi. Per me è semplicemente istinto, e forse è tutto ciò che una persona può sperare di mettere in ogni singolo giorno: attenzione alla luce, slancio verso la bellezza che fugge».

18 gennaio 2021