Giuditta, le armi della bellezza e la preghiera

L’atto di coraggio compiuto dalla vedova – vera “madre” della città – nella piena fiducia in Dio, mentre i suoi concittadini di Betulia aspettavano di consegnarsi ai nemici

Sulla città di Betulia – luogo dove accadono i fatti narrati nel Libro di Giuditta – poco si sa. Ma che si potesse trattare di una località vicina o, addirittura, fittizia per alludere a Gerusalemme è ben plausibile visto che dopo la trionfale vittoria, alla fine del Cantico – e anche del libro – è scritto che «quando giunsero a Gerusalemme, si prostrarono ad adorare Dio e, appena il popolo fu purificato, offrirono i loro olocausti, le offerte spontanee e i doni. Giuditta offrì in voto a Dio tutti gli oggetti di Oloferne. Il popolo continuò a far festa a Gerusalemme vicino al tempio per tre mesi e Giuditta rimase con loro» (16,18-20).

Del resto anche il nome della grande eroina biblica, che vuol dire la “giudea”, non serve ad altro che ad indicare il modello esemplare della donna che sente fortemente di appartenere al popolo di Giuda. Ella ha tutte le caratteristiche per essere la vera “madre” della città, a differenza degli uomini che formalmente la governano ma senza averne i giusti sentimenti, le necessarie capacità e virtù.

Quando Giuditta entra in scena il libro è già a metà del suo corso e ha spiegato le ragioni della situazione esiziale in cui è precipitata Betulia: assediata dell’esercito nemico è arrivata allo stremo: «Il campo degli Assiri al completo, fanti, carri e cavalieri, rimase fermo tutt’intorno per trentaquattro giorni e venne a mancare a tutti gli abitanti di Betulia ogni riserva d’acqua. Anche le cisterne erano vuote e non potevano più bere a sazietà neppure per un giorno, perché davano da bere in quantità razionata. Incominciarono a cadere sfiniti i loro bambini; le donne e i giovani venivano meno per la sete e cadevano nelle piazze della città e nei passaggi delle porte, e ormai non rimaneva più in loro alcuna energia» (22,7-20).

Dinanzi alla prospettiva della fine, il popolo perde ogni fiducia nel soccorso di Dio e cede all’idea di consegnarsi: «Ora non c’è più nessuno che ci possa aiutare, perché Dio ci ha venduti nelle loro mani per essere abbattuti davanti a loro dalla sete e da terribili mali. Ormai chiamateli e consegnate l’intera città al popolo di Oloferne e a tutto il suo esercito perché la saccheggino. È meglio per noi essere loro preda; diventeremo certo loro schiavi, ma almeno avremo salva la vita e non vedremo con i nostri occhi la morte dei nostri bambini, né le donne e i nostri figli esalare l’ultimo respiro» (8,25-27).

Un pensiero non proprio assurdo ma che apparirebbe, al contrario, affatto ragionevole. Le parole si univano al pianto e alle grida tanto che «Ozia rispose loro: “Coraggio, fratelli, resistiamo ancora cinque giorni e in questo tempo il Signore, nostro Dio, rivolgerà di nuovo la sua misericordia su di noi; non è possibile che egli ci abbandoni fino all’ultimo”. Ma se proprio passeranno questi giorni e non ci arriverà alcun aiuto, farò come avete detto voi» (8,30-31).

È a questo punto che interviene Giuditta, una vedova senza nessun titolo né ministero nella vita politica della sua città; ella chiamò i capi di Betulia e li rimproverò dicendo: «Chi siete voi dunque che avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al di sopra di lui in mezzo ai figli degli uomini?Se non siete capaci di scrutare il profondo del cuore dell’uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore? Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà» (8,12-17).

Ciò che tutti i giudei avevano dimenticato è che in ogni vicissitudine o tragedia che li colpiva dovevano sforzarsi di pensare che non tutto dipende dagli esseri umani ma che dev’essere lasciato uno spazio per la presenza sapiente di Dio. Un campo di libertà e di grazia incondizionate. È quanto significa credere e sperare, vale a dire non colmare di umano ragionamento ogni possibile evento. Non possedere la vita ma custodirla nell’affidarsi, nel confidare, nel cooperare, nell’impegnarsi perché la vita vinca.

Così fece Giuditta che nei cinque giorni in cui passivamente i suoi concittadini avrebbero aspettato di consegnarsi ai nemici, oppose un’opera “mai vista”, un atto di coraggio straordinario compiuto nell’umiltà, nella sororità (con la sua ancella) e nella piena fiducia in Dio. Oloferne – capo dell’esercito nemico – fu svuotato, così, d’ogni potere: «Con la mano di una donna! Infatti il loro capo non fu colpito da giovani, né lo percossero figli di titani, né alti giganti l’oppressero, ma Giuditta, figlia di Merarì, lo fiaccò con la bellezza del suo volto. Allora i miei poveri alzarono il grido di guerra e quelli si spaventarono, i miei deboli gridarono forte, e quelli furono sconvolti; gettarono alte grida, e quelli volsero in fuga» (16,5-11). Due armi aveva Giuditta, che ella usò a favore del suo popolo sfiancato: la bellezza per sedurre gli uomini e la preghiera per sedurre Dio!

5 novembre 2024