2.500 under30 italiani alle prese con il mondo del lavoro, raggiunti in 12 mesi attraverso una survey realizzata sul web. È il panorama dei “nativi precari” presentato questo pomeriggio, 9 maggio, agli studenti di Scienze della formazione di Roma Tre nel corso di un seminario dedicato al saggio “Il ri(s)catto del presente. Giovani e lavoro nell’Italia della crisi” (Rubettino), con i dati dell’inchiesta quantitativa svolta dall’Istituto ricerche educative e formative (Iref) delle Acli.

Al centro dell’analisi, le modalità di approccio al mondo del lavoro e la capacità dei millennials al nuovo mercato professionale, fortemente condizionato da forme di “lavoro in deroga”. Il panorama non è rassicurante: per mantenere il posto di lavoro, il 27% dei millennials rinuncerebbe ai giorni festivi, il 10,5% rinuncerebbe ai giorni di malattia retribuita e il 16,7% alle ferie. Inoltre il 12,4% si farebbe pagare meno del dovuto pur di tenersi il posto di lavoro. Solo un 32,8% non rinuncerebbe mai ai propri diritti di lavoratore per farsi assumere o mantenere il posto di lavoro.

Per la presidente Iref Paola Vacchina «la sensazione è che quando si affronta il tema del lavoro dei giovani si sbagli prospettiva», con «stereotipi – di giovani seduti e sfiduciati – che non corrispondono alla realtà. L’Italia – ha aggiunto – è tra i Paesi europei più ingenerosi verso i giovani, che li tratta meno bene». Anche per questo «sono molte le strategie che i giovani italiani adottano, anche in condizioni molto dure e spesso facendo fatica. E qualcuno non ce la fa. Ma sono molte le strade che provano per dare il loro contributo sulla scena della vita sociale e del lavoro, nel nostro Paese o scegliendo molte volte l’estero». Secondo Vacchina, «questi giovani fronteggiano con realismo le difficoltà e manifestano forme di resilienza che si concretizzano spesso in conformazioni sociali auto-organizzate per sostenersi reciprocamente».

Stando ai dati dell’indagine, il 40% dei giovani ritiene che oggi non ci sia possibilità di difendere il proprio posto di lavoro, il 30% pensa che per difenderlo la strategia migliore sia mettersi insieme ad altri lavoratori, il 20% che sia meglio agire da soli, il 10% che sia meglio rivolgersi ad un sindacato. Tre le tipologie di giovani coinvolte: gli italiani che lavorano nel nostro Paese (gli stayers), i giovani andati all’estero (i movers) e i giovani di seconda generazione. Un gruppo considerevole (44,9%) sostiene di non avere una carriera ma solo un lavoro, mentre per un intervistato su tre (33%) la sua carriera ha avuto un percorso lineare. Un quinto del campione, infine, pensa di essere sulle “montagne russe”, in un continuo saliscendi professionale (20,8%). «Tutti elementi – ha spiegato Andrea Casavecchia, dell’Università Roma Tre – che creano instabilità».

L’accoppiamento “formazione-lavoro”, ha evidenziato il curatore della ricerca Gianfranco Zucca, «funziona bene per i giovani provenienti da famiglie con entrambi i genitori con un lavoro qualificato». Massimiliano Smeriglio invece, vice presidente della Regione Lazio, ha sottolineato il «disastro umanitario» che è l’accesso dei giovani al lavoro. In questo contesto, ha osservato, ogni giovane è davanti a un «destino drammaticamente individuale». Smeriglio ha rimarcato anche la «sproporzione tra i canali istituzionali come i centri per l’impiego e le relazioni individuali», per poter trovare lavoro. Quindi si è soffermato sulla retribuzione di alcuni lavori in cui trovano “impiego” soprattutto i giovani: «Sotto una certa cifra non è lavoro, è schiavitù», ha detto. Tra gli applausi. 

9 maggio 2018