Francesco alla Sinagoga abbraccia i «fratelli maggiori nella fede»
Per la terza volta un Papa in visita al Tempio Maggiore. Il Rabbino Di Segni: «Nella tradizione un atto ripetuto tre volte diventa consuetudine»
Per la terza volta un Papa in visita al Tempio Maggiore. Il Rabbino Di Segni: «Nella tradizione un atto ripetuto tre volte diventa consuetudine»
Un incontro all’insegna dell’amicizia. Quella le cui porte sono state aperte 50 anni fa dal Concilio Vaticano II e dalla dichiarazione Nostra Aetate, quella coltivata e fatta crescere nel tempo dai contatti concreti tra ebrei e cattolici di Roma. Dopo Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, la storia di questa amicizia si arricchisce della visita di Papa Francesco, arrivato alla Sinagoga di Roma nel freddo pomeriggio del 17 gennaio.
«Secondo la tradizione giuridica rabbinica – dirà il rabbino capo Riccardo Di Segni -, un atto ripetuto tre volte diventa “chazaqa”, consuetudine fissa». E in effetti, l’ingresso di Francesco nel Tempio Maggiore è sembrato quello di un fratello che torna a casa dopo tanto tempo, in un clima di festa. La casa è quella in cui si prega il Dio comune di Abramo, i componenti della famiglia sono i «fratelli maggiori nella fede», come Francesco, riprendendo l’espressione di Giovanni Paolo II, definisce coloro che lo accolgono. Tante le mani che cercano le sue mani, i sorrisi, gli sguardi.
Ad accoglierlo e ad accompagnarlo nelle prime due tappe della giornata, ci sono il presidente della Comunità ebraica della capitale, Ruth Dureghello, il presidente della Fondazione Museo della Shoah, Mario Venezia e Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane. Francesco si ferma con loro davanti alle lapidi che raccontano il rastrellamento nazista del 16 ottobre del ’43, quindi davanti alla lapide in ricordo di Stefano Gaj Taché, il bambino ucciso nell’attentato terroristico del 1982. Il rabbino capo aspetta il Papa davanti all’ingresso della Sinagoga. Lo accoglie con un sorriso e lo abbraccia. Mentre l’organo suona, percorrono il corridoio centrale della Sinagoga sul lungo tappeto blu.
Saluta tutti, Francesco, sotto una scarica di flash degli smartphone. Avvicinandosi all’Aron-Ha-Kodesh, l’Armadio Sacro che contiene il Sefer Torah, i rotoli della legge, il Papa si ferma a parlare con gli ultimi sopravvissuti romani della Shoah. Lo aspettavano, seduti nei primi banchi. Per loro il saluto più affettuoso, gli abbracci e i baci. «Il passato – dirà Francesco – ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro. La Shoah ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace».
Sono passati più di 20 minuti dal suo ingresso in Sinagoga. Dopo aver stretto tante mani, tra cui anche quella dell’Imam Sergio Pallavicini, della Comunità religiosa islamica (Coreis), il Papa e il rabbino capo si accomodano vicino alla Tevà, nella parte centrale del Tempio. Gli applausi prolungati e anche un chiaro «viva il Papa!», gridato prima che Francesco completi il giro di saluti, sono la riprova che questo incontro «non porta i segni dei ritualismi», come fa notare Ruth Durenghello nel suo intervento: «Con questa visita ebrei e cattolici lanciano oggi un messaggio nuovo rispetto alle tragedie che hanno riempito le cronache degli ultimi mesi: la fede non genera odio, non sparge sangue, richiama al dialogo».
Un evento «la cui portata si irradia in tutto il mondo con un messaggio benefico» afferma Di Segni che ricorda poi il Giubileo nella tradizione ebraica: «Non ci è sfuggito il momento iniziale in cui all’apertura della Porta è stata recitata la formula liturgica “aprite le porte della giustizia”. Per un ebreo che ascolta, è qualche cosa di noto e familiare, è la citazione del verso dei Salmi» che «noi citiamo nella nostra liturgia festiva». Un segno «di come le strade divise e molto diverse dei due mondi religiosi condividono comunque una parte di patrimonio comune che entrambe considerano sacro». Tutti «attendiamo – continua il Rabbino – un momento chissà quanto lontano nella storia in cui le divisioni si risolveranno». «Accogliamo il Papa – conclude poi – per ribadire che le differenze religiose, da mantenere e rispettare, non devono però essere giustificazione all’odio e alla violenza, ma ci deve essere invece amicizia e collaborazione e che le esperienze, i valori, le tradizioni, le grandi idee che ci identificano devono essere messe al servizio della collettività».
Prendendo la parola, Francesco ringrazia in ebraico: Todà Rabbà, ricordando come «già a Buenos Aires ero solito andare nelle sinagoghe e incontrare le comunità là riunite, seguire da vicino le feste e le commemorazioni ebraiche». Un «legame spirituale» che «ha favorito la nascita di autentici rapporti di amicizia e anche ispirato un impegno comune. Tutti apparteniamo a un’unica famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo». Poi, parlando di Roma, il Papa aggiunge: «Insieme, come ebrei e come cattolici, siamo chiamati ad assumerci le nostre responsabilità per questa città, apportando il nostro contributo, anzitutto spirituale, e favorendo la risoluzione dei diversi problemi attuali».
Tra questi, le violenze e le ingiustizie con le quali non solo Roma deve fare i conti: «Conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo – conclude il Papa – è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche. La vita è sacra, quale dono di Dio. Noi dobbiamo pregarlo con insistenza affinché ci aiuti a praticare in Europa, in Terra Santa, in Medio Oriente, in Africa e in ogni altra parte del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita». Come al suo arrivo in Sinagoga, Francesco, al termine del suo intervento, parla in ebraico con l’augurio tanto caro al popolo d’Israele: «Shalom aleichem», che la pace sia su di voi.
18 gennaio 2016