Fosse Ardeatine, il dovere della memoria

Ottant’anni fa, il 24 marzo 1944, l’eccidio nazista che costò la vita a 335 persone, come rappresaglia per l’attentato compiuto il giorno precedente a via Rasella. Tra loro anche un sacerdote, don Pietro Pappagallo. Il più giovane, 15 anni, abitava al Portico d’Ottavia

Il 23 marzo 1944 era un giovedì. Roma era occupata dal settembre 1943 dalle truppe di Hitler. Diversi attentati resistenziali si erano verificati nelle settimane precedenti. Lo sbarco degli Alleati ad Anzio aveva acceso la speranza di una rapida liberazione; le azioni partigiane avevano accelerato. Gli occupanti avevano sempre reagito con rappresaglie feroci. Quel giovedì mancavano pochi minuti alle 16 quando l’esplosivo preparato da un nucleo dei Gruppi di azione patriottica (Gap) esplose in via Rasella, al centro di Roma. Il luogo era stato scelto perché la colonna di soldati tedeschi della compagnia Bozen si sarebbe trovata in una via stretta e attaccabile, dai due ingressi della via. Le vittime tra i tedeschi furono 32, salite a 33 durante la notte. Ci furono anche alcune vittime italiane uccise dai militari che presero a sparare all’impazzata, o colpite dall’esplosione. Tra questi il 12enne Piero Zuccheretti, un giovane apprendista di un’ottica nelle vicinanze.

Gli occupanti dai vertici del Reich ricevettero ordini di procedere a una immediata e durissima rappresaglia. Si compilarono le liste, affastellando nomi di prigionieri già detenuti a Regina Coeli, in via Tasso, e di uomini rastrellati nelle strade dopo l’attentato. La rappresaglia fu immediata e compiuta in segreto, scegliendo una cava sull’Ardeatina, lontano dagli occhi della città. Le 5 persone in più rispetto alle 330 previste dalla decisione ultima di uccidere 10 italiani per ogni militare del Reich ucciso non rappresentarono un problema, anche perché non si potevano lasciare testimoni. A meno di 24 ore dall’attentato la rappresaglia ebbe luogo. Il 24 marzo alle 15.30 le esecuzioni cominciarono. A 5 a 5, in due punti diversi delle cave le vittime vennero fatte entrare. In ognuno dei due cunicoli c’era un gruppo di fuoco che faceva inginocchiare le vittime al fuoco delle torce e gli sparava alla testa. La carneficina finì alle 8 di sera. I tedeschi, poi, fecero saltare con l’esplosivo l’imbocco delle cave per nascondere la feroce operazione compiuta.

Ma accanto alle cave ci sono le catacombe di San Calisto, affidate ai Salesiani. I religiosi si accorsero del via vai di camion che portavano i detenuti e i rastrellati. Due di loro – don Fagiolo e il chierico Perrinella – osservarono di nascosto, e furono determinanti per l’individuazione del luogo della strage. Il più giovane tra le vittime delle Fosse Ardeatine si chiamava Michele Di Veroli. Abitava al Portico d’Ottavia e aveva solo 15 anni. Era stato arrestato il 18 marzo assieme al padre Attilio (54 anni); il fermo era scattato perché erano ebrei, e furono reclusi a Regina Coeli. Michele aiutava il padre nell’attività di venditore ambulante. Anche il più anziano era ebreo. Si chiamava Mosé Di Consiglio. Era stato portato a Regina Coeli il 21 marzo. Aveva 74 anni ed era un commerciante.

Furono 75 le vittime finite nella lista della rappresaglia perché ebree. Con gli altri 260 trucidati, rappresentavano tutti gli strati sociali della città. C’erano militari, studenti, professionisti, falegnami, muratori, un mosaico di umanità dolente provata da anni di guerra e che anelava alla pace. Tra le vittime ci fu anche un prete, don Pietro Pappagallo. Offriva ospitalità e documenti falsi a chi era ricercato, in contatto con la resistenza. Lo denunciò un militare italiano ricercato come disertore. Era stato aiutato e, come emerge dalle carte processuali, «fu spinto alla delazione dall’avidità del guadagno».

Il luogo della strage divenne da subito una meta di pellegrinaggio per i familiari delle vittime e per tanti romani. Già dal 1949 si decise di farne una testimonianza monumentale, un sacrario che rammentasse la crudeltà dell’occupazione e della guerra. A 80 anni da quella pagina nera della nostra città, la sua memoria rappresenta un momento qualificante – non l’unico, certo – per ricordare l’approdo ultimo di un regime dalla postura bellicista. Le 335 vittime innocenti pagarono con la vita il rinserrarsi di ogni spazio di umanità nella bufera del conflitto.

21 marzo 2024