“Forse Esther”, memorie neglette tra lagher e ghetto

Nelle pagine di Katja Petrowskaja, un viaggio attraverso la storia della propria famiglia che diventa spaccato di ombre inquietanti

Nelle pagine di Katja Petrowskaja, un viaggio attraverso la storia della propria famiglia che diventa spaccato di ombre inquietanti, tradizioni violate

Nel 1941, quando le truppe hitleriane entrarono a Kiev, molte famiglie fuggirono a gambe levate per sottrarsi al massacro. I Petrowskaja, ad esempio. L’unica persona rimasta in casa era la vecchia nonna, il cui nome nessuno ricorda con precisione, visto che tutti la chiamavano “babuška”, vezzeggiativo da sempre usato in Russia per  rendere omaggio agli anziani. Nel momento in cui i tedeschi ordinarono agli ebrei di presentarsi in piazza, la povera donna non se lo fece ripetere due volte e, strascicando i passi, si recò all’appuntamento. Solo che non sapeva dove dovesse dirigersi. Lo chiese, con la sventatezza e l’innocenza della vittima sacrificale, a un gruppo di ufficiali nazisti riuniti a confabulare all’angolo della strada. Uno di essi si voltò verso di lei e, degnandola appena di uno sguardo, le sparò in faccia con la pistola d’ordinanza. Come si chiamava la sventurata? Forse Esther: questo è anche il titolo che la nipote, Katja Petrowskaja, nata a Kiev nel 1970, ha voluto dare al libro, tradotto per Adelphi da Ada Vigliani (pp.240, 18 euro), in cui ricostruisce, con pazienza certosina e profonda tenacia, le proprie complesse origini familiari.

La scrittrice, emigrata a Berlino, usa la lingua tedesca, cioè quella dei nemici, per raccontare la storia dei suoi avi, ebrei russi, ucraini, polacchi, ma non si accontenta di delinearne le vicende di contadini, insegnanti, fisici, poeti, fondatori di istituti per sordomuti e rivoluzionari. Parte lei stessa verso i luoghi simbolo che loro hanno attraversato. Lo fa usando le tecnologie contemporanee: dalla rete ai cellulari. Il che rende la sua opera ancora più vera. Da Auschwitz a Mathausen, da Vienna a Varsavia, esplora ciò che resta dei lager, dei gulag e dei ghetti. Ne deriva uno spaccato formidabile di memorie neglette, grovigli spinosi, ombre inquietanti, tradizioni violate. Spicca il viaggio nella fossa di Babi Jar, dove vennero trucidati e sepolti centinaia di migliaia di esseri umani. Oggi il posto si raggiunge in tram da Kiev, fra bancarelle, bambini che giocano e cultori del footing. Lo scarto, per chi ha gli occhi giusti, sembra insopportabile. Eppure Petrowskaja resta lucida, equilibrata, mai retorica.

Colpisce il timbro stilistico teso a rappresentare l’indicibile, l’ineffabile, ciò che – così avrebbe detto Primo Levi – resta sommerso, misterioso. Come il nonno dell’autrice, militare sovietico che, dopo essere stato catturato dai nazisti, sopravvive ai campi di concentramento, ma quando ritorna a casa è costretto ad affrontare il peso dell’altro totalitarismo. Dalla svastica alla Stella Rossa, Vasilij Ovdijenko, questo il suo nome, sperimenta sulla propria pelle entrambe le dittature, senza riuscire a trovare il coraggio di ripresentarsi a casa. Lo fa solo nel 1982, sotto gli occhi di Katja, futura scrittrice, allora undicenne, la quale intuisce nel silenzio del nonno una tragedia incommensurabile che da grande deciderà di rievocare.

28 aprile 2015