Flannery O’Connor, i volti deformi del Bene

A 50 anni dalla morte, il ricordo della scrittrice che ha fatto scoprire Cristo, alla puritana America, in un profugo e un ermafrodito. Raccontò le forme inconcepibili assunte dalla grazia per manifestarsi

Teneva ancora sotto il cuscino le bozze della seconda raccolta di racconti, Mary Flannery O’Connor, quando entrò in coma il 2 agosto 1964 senza risvegliarsi il giorno successivo. Per l’asportazione del fibroma aveva deciso di farsi operare nella sua città, Milledgeville, in modo da non costringere a seguirla altrove l’anziana madre, Regina Cline, donna di non semplice carattere. Basta vedere con quale frequenza torni, nei racconti della O’Connor, il disprezzo di figli intelligenti quanto arroganti per madri sempliciotte quanto presuntuose (Punto Omega, Malattia mortale, Brava gente di campagna). E chissà se, condotto in un centro più specializzato del suo sperduto paese, l’intervento chirurgico non si sarebbe concluso con un altro risultato.

Due romanzi e due raccolte di racconti è quanto ci ha lasciato, insieme a saggi divenuti capitali e un epistolario ancora in fase di emersione. Le sue storie sono veri crogioli per l’orgoglio il quale, immerso nel forno impietoso della vita, ne esce drammaticamente purificato, ossia rivelato per quel che è: scorie informi, cenere, nella migliore delle ipotesi una lacrima da porre come fondamento per la ricostruzione di un cuore umano. Sono questi racconti, il vero diario di preghiera della scrittrice americana, i suoi esami di coscienza, il suo intimo denudarsi davanti quel solo Pubblico meritevole di fissarla fin negli abissi perché ne è al tempo stesso l’Autore. Quel soffermarsi continuo su personaggi deformi e malati proveniva non solo da una sensibilità faulkeneriana per l’amato Sud, quanto più da una radicale conversione nell’accogliere la propria condizione – il lupus erimateoso che ne deformava rapidamente il giovane corpo – rinunciando a un’immagine di sé ideale quanto diabolica.

Quando le venne chiesto di scrive un’agiografia della piccola Mary Ann, una bimba con il volto devastato dal tumore e morta in odore di santità, il rifiuto fu netto, quasi snob. Ne scrisse alcuni mesi dopo: è il 1960 e il lupus le aveva causato la degenerazione dell’osso mascellare. Probabilmente, stringendo tra le mani la foto di Mary Ann, Flannery vi si era specchiata. Ebbe, come lei stessa scrive, un’illuminazione sul senso del “grottesco”: «La maggior parte di noi ha imparato a essere spassionata di fronte al male, a guardarlo in faccia e, il più delle volte, trovarvi il nostro ghignante riflesso, con cui normalmente non ci confrontiamo; ma il bene è un’altra faccenda. Pochi l’hanno fissato abbastanza a lungo da accettare il fatto che anche il suo aspetto è grottesco, che in noi il bene è spesso in corso d’opera. Le forme del male di solito ricevono espressione adeguata; quelle del bene devono accontentarsi di un cliché o di una lisciatina che ammorbidisce il loro aspetto reale».

Quello che più sconvolge nella sua narrativa è proprio, a ben vedere, le forme inconcepibili assunte dalla grazia per manifestarsi. Epifanie che sono sferze per l’immaginazione irreggimentata di tanti benpensanti, credenti e non. Cito a titolo di esempio due racconti tra i meno ricordati. Ne Il profugo un ebreo polacco in fuga dall’Europa nazista viene fatto assumere da un prete presso un’azienda agricola condotta dalla signora McIntyre coadiuvata dalla famiglia Shortley e gli immancabili servi della gleba negri. Tutto pare andare per il meglio, perfino troppo, perché l’abilità del signor Guizac con le macchine agricole scatena l’avidità degli uni e l’invidia degli altri, innescando il meccanismo del capro espiatorio. È l’unico racconto della O’Connor in cui compaiono i suoi amati pavoni. Un paio di loro sopravvivono nella fattoria della McIntyre e il prete ne ammira lo spalancarsi improvviso della coda commentando: “Così sarà l’avvento di Cristo!”. “Egli è venuto per redimerci”, aggiunge poco dopo alla McIntyre che si lamenta con lui del profugo, e non si capisce se il riferimento sia a Cristo, al signor Guizac o a tutti e due. La conclusione – vera concretizzazione narrativa di “La luce è venuta nel mondo, ma le tenebre non l’hanno accolta” – suggerisce la terza opzione.

Un Tempio dello Spirito Santo ha invece per protagonista una dodicenne campagnola. Intelligente, volitiva ma inesperta, tenta di competere con le due smaliziate cugine in una buffissima gara di confidenze su chi la sa più lunga sulle prurigini adolescenziali. Le cugine studiano in un collegio di suore ma ne farebbero volentieri a meno, la “bambina” – così viene chiamata – ha invece un’intensa immaginazione religiosa e si sogna martire nel Colosseo, con i leoni che cadono ai suoi piedi, convertiti. Nello scambio di confidenze, le cugine raccontano di un “fenomeno” del circo che aveva sia i genitali maschili che quelli femminili. «Dio m’ha fatto in questo modo e se ridete può segnare anche voi – commentava il “fenomeno”. – È stato Lui a volermi così e io non discuto la sua volontà. Non me ne sono mai servito in alcun modo, ma devo pur tirarci fuori qualcosa di buono. Io non discuto». Parole che restano ben fissate nella mente della piccola, al punto che, quando si reca all’adorazione eucaristica con la madre, durante l’elevazione non vede più il proprio idealizzato martirio, ma la grottesca santità del fenomeno: «Io non discuto. È stato Lui a volermi così».

Ecco due figure cristiche che lasciano del tutto disattese le aspettative religiose del lettore, denunciandone la limitatezza dell’immaginazione e magari la durezza di cuore. Alla O’Connor non si possono certo imputare sbandamenti dall’ortodossia, tanto meno di voler compiacere il proprio pubblico con facili strizzate d’occhio. Ciò nonostante, nell’America puritana degli anni Cinquanta, non esitò a trovare Cristo in un profugo e in un ermafrodito.

I libri
Flannery O’Connor, Tutti i racconti, Bompiani, pp. 604 – 15 euro
Flannery O’Connor, Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere, Rizzoli, pp. 172 – 9,50 euro

17 luglio 2014