Fine vita: non sempre punibile chi aiuta il suicidio

La decisione della Consulta sul caso di Marco Cappato (associazione Luca Coscioni). La Cei: sconcerto e distanza. Gambino (Scienza&Vita): sradica la solidarietà dalla Costituzione italiana

Alla fine il pronunciamento della Corte Costituzionale è arrivato. Nella serata di ieri, 25 settembre, dopo le 8. Non è sempre punibile, «a determinate condizioni», chi «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Così recita la sentenza, pronunciata riguardo al caso di Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni, che  rischiava fino a dodici anni di carcere per aver accompagnato in Svizzera a morire, nel febbraio del 2017, Fabiano Antoniani – Dj Fabo -, quarantenne milanese divenuto tetraplegico in seguito a un incidente.

La sentenza, comunicata dopo due giorni di camera di consiglio e della quale si attende ora il deposito, si inserisce nel solco già tracciato un anno fa, quando, giudicando la condotta di Cappato, ne aveva affermato la «non punibilità», prospettando dunque l’incostituzionalità dell’articolo 580 del Codice penale – che punisce l’aiuto al suicidio – quando il caso concreto presente le caratteristiche che il “caso Fabo” presentava.  A decidere nel concreto, comunque, dovrà essere di volta in volta il giudice chiamato in causa, dato che il dispositivo scelto dalla Corte non incide sul testo dell’articolo 580, che resta in vigore pur con questa nuova linea interpretativa.

In attesa di un intervento del Parlamento, che viene comunque definito «indispensabile», la Corte, si legge nella nota stampa diffusa ieri sera, «ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente». L’obiettivo: «Evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili». Obiettivo per il quale la Corte aveva scelto di non intervenire subito e di lasciare al Parlamento un anno di tempo per circoscrivere nel dettaglio tali situazioni. Scaduto il tempo concesso alle Camere, la Corte, negando ogni ulteriore rinvio, è intervenuta provando lei stessa a definire alcuni limiti alla appena dichiarata «non punibilità».

suicidio assistito eutanasia fine vita«Sconcerto e distanza» nella reazione dei vescovi italiani, affidata a una nota della presidenza Cei. «Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia». Rilanciano le parole di Francesco, i presuli, esprimendo «la preoccupazione maggiore» soprattutto riguardo alla «spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità». I vescovi, si legge nel comunicato, «confermano e rilanciano l’impegno di prossimità e di accompagnamento della Chiesa nei confronti di tutti i malati. Si attendono che il passaggio parlamentare riconosca nel massimo grado possibile tali valori, anche tutelando gli operatori sanitari con la libertà di scelta».

Per Alberto Gambino, presidente di Scienza & Vita, la decisione della Consulta «cede ad una visione utilitaristica della vita umana, ribaltando la lettura dell’articolo della nostra Carta che mette al centro la persona umana e non la sua mera volontà, richiedendo a tutti i consociati doveri inderogabili di solidarietà. Da oggi – evidenzia – non sarà più un dovere sociale impedire sempre e ovunque l’uccisione di un essere umano». Il punto di partenza: un caso di grave disabilità – quello, appunto, del dj Fabiano Antoniani – e non una situazione di malattia terminale, «dove invece già era intervenuta la legge sul fine vita del 2017». Da qui la Corte «ha ceduto a una lettura ideologica dei radicali italiani che hanno dato origine al caso, sradicando la solidarietà che da sempre mira a impedire gesti estremi a chi versa in situazioni di fragilità, per aprire ad ipotesi di loro uccisione».

Anche il giurista punta il dito contro «l’impatto culturale che l’apertura al suicidio assistito potrà comportare sulle prassi sanitario-assistenziali anche, purtroppo, per motivi di costi e risparmi di spesa». Ora, sottolinea, «quanti hanno a cuore la cura delle persone che versano in condizioni vulnerabili dovranno indirizzarsi verso la riduzione al massimo dell’impatto sociale di questa cruciale sentenza». Da ultimo però Gambino mette grande evidenza sullo spiraglio lasciato aperto all’intervento del Parlamento. «È un invito forte al mondo della politica a riportare in aula la discussione di un tema così importante e delicato – afferma – e a valutare bene la situazione».

26 settembre 2019