Federica Angeli, una voce contro la mafia romana

La giornalista di Repubblica, minacciata dagli Spada per le sue inchieste, ha scelto di denunciare. Da allora vive sotto scorta. «Ho pagato con la mia indipendenza - racconta - ma credo nella nostra giustizia»

Federica Angeli ha una voce squillante. È curiosa, ama vederci chiaro. Scrive quello che vede. Lavora a Repubblica e i suoi articoli non hanno mai fatto sconti a nessuno. È stata la prima giornalista a raccontare come la criminalità si fosse infiltrata a Ostia e per questo ha ricevuto molte minacce dal clan Spada. Hanno tentato di fermarla. Ma lei non è mai tornata indietro, armata di coraggio, penna e fiducia nella giustizia. Da più di 4 anni vive sotto scorta. Il 19 febbraio scorso ha testimoniato in aula nel processo contro Armando Spada, imputato per minacce e violenza privata nei suoi confronti.

Perché hai scelto di rimanere a vivere a Ostia?
Non voglio essere cacciata dalla terra in cui vivo, solo perché è un territorio della criminalità.  Se lo facessi vorrebbe dire che mi lascio intimidire. Ho voluto dare un segnale anche ai miei figli. Perché quando si intraprende una lotta ci si muove sul campo.

È il 2013 quando denunci Armando Spada. In quel momento che cosa hai provato?
È il 23 maggio quando vengo minacciata. Dopo una settimana, il 31, faccio la denuncia. Raccogliendo le testimonianze dei commercianti che pagavano il pizzo molte volte ero stata critica. Loro pagavano ma non denunciavano. Quando è successo a me ho pensato: “Li denuncio”.

Hai avuto dubbi?
Sì. Poi ha prevalso la mia educazione, il mio senso della legalità e della giustizia. No, la paura non poteva vincere. Credo nella nostra giustizia. Non si possono chiudere gli occhi. E armata della scrittura e di forti prove giornalistiche ho fatto la mia denuncia. Inoltre, sono testimone di un tentato duplice omicidio e non potevo rimanere in silenzio.

A luglio del 2013 ti viene assegnata la scorta. Da quel momento la tua vita cambia
Sì. A luglio del 2013 assisto a un tentato duplice omicidio. Il boss intima a tutti di rientrare in casa, io rimango sul terrazzo e sono testimone di uno scontro a fuoco.  Il giorno dopo vado dalle forze dell’ordine a fare i riconoscimenti e mi viene assegnata la scorta. In quel momento mi sono asciugata le lacrime e ho cercato un modo per vivere questa mia nuova condizione.

Come hai fatto?
Mi sono inventata che era tutto un gioco. Ai miei figli ho detto che mi avevano premiato dandomi due autisti. Poi ho raccontato loro che se avessi scritto 5000 articoli come premio avrei avuto una villa.

Ti sei mai sentita sola? Quella solitudine che è isolamento, il non sentirsi capiti, come scrivevano anche Falcone e Borsellino?
Conosco bene quella sensazione. Tante volte mi sono sentita sola, scoraggiata. In quei momenti ho riletto le frasi di Falcone e Borsellino. Sentivo dentro di me il loro sconforto. Molte volte ho pensato: “Mollo”. Poi ha vinto la testardaggine e la curiosità di vedere come sarebbe andata a finire.

Perché ti sentivi tanto sola?
Quando per la prima volta scrissi di mafia erano in pochi a crederci. Anche la magistratura non usava quel termine. In realtà con il mio lavoro ho capito che la mafia può anche parlare con accento romano e non c’è solo al Sud. Gli Spada nelle loro interviste hanno sempre negato di far parte di una famiglia “mafiosa” e si sono sempre definiti una famiglia normale. Quindi a Roma non solo non si è mai parlato di mafia ma non è mai stato dato un termine per descrivere questo fenomeno. Mentre nelle altri parti d’Italia si parla di “Cosa nostra”, “camorra”, “ ‘ndrangheta”, “Sacra corona unita”, la mafia romana non ha un nome. Solo in un secondo momento si è parlato di “Mafia Capitale” e di “Suburra”. Per questo ho pagato un prezzo così alto. Perché quando sei la prima persona a cogliere un fenomeno paghi lo scotto, come una Cassandra. Non ti crede nessuno. Non solo ti trovi a lottare contro il clan ma anche contro il sistema. E, purtroppo, le cose quando non si chiamano per il loro nome crescono indisturbate. Quando si vedono gli effetti è già troppo tardi, perché vuol dire che il fenomeno si è radicato sul territorio.

Ricorda momenti particolarmente difficili?
Quando mi hanno messo la benzina sotto la porta di casa. Allora con i miei figli mi sono inventata il gioco: perdeva chi si bagnava i piedi. È stato duro mantenere il sorriso. Con i figli ho usato il gioco affinché non fossero sfiorati dalla paura. E così sulla scorta ho detto che sono autisti che ci accompagnano e ci proteggono da uno cattivo che si chiama “mafia”. Questo è stato il modo per non farli vivere nella paura e nell’incertezza.

È stato difficile educare i tuoi figli?
Voglio che conducano una vita più normale possibile. Cerco di dare loro dei valori e farli crescere senza vizi. Non si devono adagiare in questa situazione. Credo che denunciare sia stato il modo anche per proteggere i miei figli. Ci sta che non tutti la pensino come me. Chi lo sa dove sia la ragione. La ricetta del bravo genitore non ce l’ha nessuno.

Chi ti ha aiutato?
Mio marito. Lui è la mia spalla. E questo gioco di squadra funziona.

Cosa ti manca di più?
Andare al mare a leggere un libro. Stare da sola. Io non lo posso più fare. Non ho più spazi e momenti miei. Mi è stata rubata la mia indipendenza. Anche nel lavoro non posso più fare le stesse cose, come le inchieste, i reportage.

Come superi questi momenti?
Sono convinta che questa sia solo una fase. Io so che tornerò libera. E questa certezza mi dà la forza.

28 febbraio 2018