Ermes Ronchi: Pasqua, «quell’arcobaleno negli occhi di Maria di Magdala»
La seconda Pasqua in tempo di Covid, tra stanchezza e disillusione. Ma la speranza non può venir meno se la forza deriva da un Dio che «si è precipitato per amore dentro le nostre contraddizioni, i nostri tradimenti e abbandoni»
È di nuovo Pasqua, la seconda in tempo di pandemia. Meno restrizioni dell’anno scorso, ma un senso di disillusione e di stanchezza. «L’anno scorso eravamo scioccati, quest’anno siamo più provati», ha detto Papa Francesco all’Angelus della Domenica delle Palme. Eppure la Pasqua è il momento più bello e più importante per un cristiano: come parlare di speranza e di gioia in questo clima? «La speranza è un atto di fede e non ha nulla dell’ottimismo legato all’andamento positivo della curva pandemica o alla ripresa economica», spiega padre Ermes Ronchi, teologo dell’ordine dei Servi di Maria, scelto nel 2016 da Papa Francesco per guidare gli Esercizi spirituali di Quaresima per il pontefice e per la Curia romana. Il cristiano «non è un ottimista; ha speranza. E la speranza è una corda tesa: un capo è saldo nelle mani di Dio, l’altro raggiunge me», prosegue spiegando che in ebraico speranza ha la stessa radice di corda.
Padre Ermes, che cos’è per lei la speranza?
Sono affascinato dalla Lettera agli Ebrei che dice: «Casa di Dio siete voi cristiani, se custodite libertà e speranza». Dobbiamo essere costruttori e custodi di speranza e libertà. La speranza è tendere a qualcosa, custodire germogli dentro di me. Si tratta di seminare occhi nuovi per guardare in modo nuovo il mondo, per essere pronti a un nuovo inizio. La domenica di Pasqua è il primo giorno della settimana, un nuovo inizio, ma per coglierlo occorre avere gli occhi dell’esploratore che anche nel quotidiano non dà nulla per ovvio o scontato ma cerca ogni giorno l’inedito. A casa mia, nel mio giardino, cammino in modo abitudinario o con l’atteggiamento dell’esploratore? Ho la capacità di vivere in modo diverso le stesse cose? La novità non è nelle cose che accadono ma nel vederle con occhi nuovi.
In che relazione sono speranza e libertà?
La mia speranza è poter vivere in piena libertà. Gesù era l’icona limpidissima della libertà. Il Dio dell’Antico testamento è il Goèl, il liberatore, e Gesù dice: «La verità vi farà liberi». Noi siamo a immagine di Dio quando riusciamo a non subire i condizionamenti, ad affrancarci dagli ergastoli interiori nei quali ci incateniamo da soli. Libertà e speranza sono, insieme all’amore, i grandi motori della vita.
Pasqua in ebraico significa passaggio; per i cristiani segna l’inizio di una nuova vita. Da dove partire, e per andare dove?
Si parte dalla croce, e quindi dal dolore, dalle ferite, dalle parti oscure di noi stessi, per incamminarsi verso la bellezza, la guarigione, la libertà. Pasqua è il passaggio dalla prigionia alla libertà, dalla sterilità alla fecondità, dalla solitudine all’abbraccio, e la forza viene da Colui che si è precipitato per amore dentro le nostre contraddizioni, dentro i nostri tradimenti e abbandoni. Dio è lì dentro; è passato attraverso la Croce e cammina con noi e con le nostre croci, ci incoraggia ad andare avanti, nonostante la fatica, verso la bellezza e l’armonia.
Dopo duemila anni, sappiamo ancora stupirci davanti alla Risurrezione?
Per me lo stupore non è davanti al sepolcro vuoto ma davanti al crocifisso perché è lì che il volto di Cristo appare in tutto il suo splendore: il suo corpo oltraggiato e abbruttito dai flagelli, dagli sputi, dai chiodi è qualcosa di meraviglioso. Io resto stupito davanti a un Dio che ama da morire, da morirci. Un amore che fa venire i brividi e tremare le mani… Gesù è morto amando e l’amore continua a risuscitare in noi la vita. Padre Turoldo scriveva che è il Venerdì santo il giorno della fede vera. Troppo facile credere a Pasqua, nello splendore della pietra vestita di luce. Fede vera è quando Gesù, pur provando il senso dell’abbandono di Dio, continua la sua donazione d’amore. L’Onnipotente ridotto al nulla, la Parola ridotta al silenzio, ha scelto di essere dove io non vorrei mai essere. E proprio là, dove noi fuggiamo, ci aspetta per camminare insieme.
Camminare o correre… La mattina di Pasqua corrono tutti: Maria di Magdala corre da Pietro, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro, come se avessero dentro un fuoco che li spinge.
C’è un dinamismo straordinario. Non si corre così per andare da un morto; corrono perché percepiscono qualcosa di incomprensibile ma di immenso. Corrono perché la notizia non può aspettare, Gesù merita l’urgenza. Di fronte alla Pasqua ci sentiamo inadeguati, in ritardo; anche noi sentiamo il bisogno di correre interiormente. Forse non è ancora fede ma una speranza, un’ansia illogica e antica come le montagne. Gesù dice alle donne di avvertire i discepoli che lo troveranno in Galilea: anche lui corre per precederli. È un Dio migratore, che avanza e apre cammini. La fede nasce da una corsa e porta a correre perché ha origine da un’esplosione, da un innamoramento urlato a piena voce del Dio fatto dolore.
Il sepolcro è vuoto.
Vuoto di un corpo, ma ci sono i teli, il sudario, 30 kg di aloe e mirra che profumano tutto l’ambiente: è abitato dall’impronta delle mani amorose di uomini e donne, dall’eco della fede e della speranza (forse illogica) di discepoli e discepole che con grande delicatezza vi avevano deposto il corpo di Gesù.
Da Maria, la Madre, inizia la storia della salvezza. Con un’altra Maria si compie l’annuncio: Gesù risorto appare per primo a una donna. Perché?
Questo incontro di Gesù con Maria di Magdala mi commuove sempre. Perché una donna? Perché gli uomini avevano paura e il contrario della paura non è il coraggio ma l’amore. Maria è uscita per prima mentre era ancora buio, come l’amata del Cantico dei cantici in cerca dell’amato.
Con quali occhi Gesù l’avrà guardata? Con quale delicatezza le avrà parlato?
«Donna perché piangi?». Dove va il primo sguardo di Gesù? Si posa sulle lacrime. Il mondo è un immenso pianto e Gesù guarda le lacrime, le conta ad una ad una e le raccoglie. Come dice il salmista: «Nell’otre tu raccogli le mie lacrime». Le lacrime sono dichiarazioni d’amore, come quando Gesù piange per la morte di Lazzaro. Sentiamoci guardati quando piangiamo; il primo sguardo di Gesù va sul nostro dolore, su questa goccia d’acqua che contiene il sale del mare e della vita, e sulla quale si posa la luce di Pasqua. Quando la luce si posa su una goccia d’acqua nasce l’arcobaleno. Forse, anche negli occhi di Maria di Magdala è sorto quella mattina un arcobaleno.
6 aprile 2021